Le sembrava che il suo animo facesse su e giù, come
il vento in autunno, come un’altalena abbandonata sotto un portico in una casa
estiva. Le sembrava che ogni giorno fosse il primo giorno di una nuova vita, e
che l’attimo esatto dopo il risveglio, il sussurro dopo il sonno, il primo
respiro umido dopo la notte fosse lì a condizionare il resto della giornata.
Come un marchio indelebile quel bacio del mattino
segnava il grafico dell’intera giornata. Ma quando la vista diventava chiara e
il sole iniziava a punzecchiare sotto le palpebre, diventava evidente che
sarebbe stata una giornata come le altre, solo da domare sull’onda di quel
vento da cui si sentiva scuotere.
Un caffè, una sigaretta, e un giro su stessa.
Si chiama Bianca e il suo nome le calza a pennello.
Qualche volta ha creduto di averlo suggerito alla sua mamma dal limbo dei
bambini non ancora nati, sussurrandolo in un orecchio mentre dormiva. Si
sentiva bianca, come un foglio non ancora scritto, e l’immacolato bagliore del
suo non aver ancora deciso la inebriava come poco altro riusciva a fare.
Ha 30 anni e non se ne vergogna, non si vergogna
dell’ultima macchietta che, così simile ad una lentiggine, le è spuntata, per
il troppo sole, accanto all’occhio destro. Non si vergogna dei tentennamenti
che non la lasciano mai mettersi comoda e riposare su prese di posizione
cruciali.
“Voglio
scegliere di non scegliere” – aveva detto urlando al suo ragazzo, dalla
cucina, fra un assaggio di sugo ai peperoni e il ticchettio delle zampe del
cane sulla soglia.
E alla fine
arriva la sera e raccoglie la giornata in un fiocco che sa di casa, di finito,
di coprifuoco. Arriva sera e riassumi la giornata in uno slancio sul divano e
un sospiro di sollievo. Finalmente al sicuro, al sicuro dal giudizio del capo,
dal lavoro che incombe, dal timore di sbagliare. A casa ti spogli e anche se
sei nudo sei perfettamente a tuo agio, libero dalla gruccia dietro la schiena
che per 8 ore ti ha tenuto rigido e controllato. Sciogli il nodo troppo stretto
di una cravatta che ogni mattino ti dà il buongiorno come un cappio a festa e
fai uno sforzo per rilassare i muscoli della schiena, che a furia di essere
tesi per assecondare le pretese di postura di un surreale ufficio di manichini,
hanno eretto colonne di marmo come busti invisibili.
“Luca, il suo
contributo è in lieve calo. La vedo stanco, ha per caso bisogno di un periodo
di riposo?”. Che voce odiosa quella del capo che, come un gorgoglio
asmatico, rotola dritto nel tuo orecchio sfinito proprio quando inizia il conto
alla rovescia per tagliare il traguardo di una giornata lavorativa stremante. Stanco
stanco stanco. E vorresti gridare “Certo,
sono stanco di dover dimostrare di non essere stanco, del lavoro, di te, brutto
fantoccio imbellettato”. Ma sei a casa adesso e gli echi della giornata e i
fumi della città li lasci sulla soglia, a confondersi con la polvere depositata
sullo zerbino.
Pregusti il sapore dei peperoni che si sciolgono in
dolce crema nella padella sul fuoco, osservi il tuo cane che scodinzola
pretendendo attenzione e chiacchieri, da una stanza all’altra, con la tua
ragazza. E ci chiacchieri come se stessi raccontando cosa hai mangiato a
pranzo, ma lei vuole scegliere di non scegliere, cazzo, e tu hai sentito cosa
ha detto e non puoi riaffondare nel divano, nella carezza data al tuo cane,
nella voce fuori campo della pubblicità del dentifricio.
“Cosa?”
“E’ semplice,
voglio scegliere di non scegliere! Cosa dovrei scegliere?”. A metà strada tra l’indifferente e lo
spontaneo, Bianca stava continuando a cucinare, saltellando dalla dispensa al
tavolo con tale naturalezza che se lo facesse ad occhi chiusi non causerebbe
alcun danno.
Nel frattempo
il suo ragazzo si era alzato dal divano, ma solo per raggiungere le sigarette
accanto alla tv. Solo un attimo e Diego, il cane di Bianca, è già lì, in quella
conca calda scavata nel divano da tutta la stanchezza di Luca.
“Devi
scegliere!” – disse Luca, senza nessun altra possibilità se non quella di
andare in cucina a dare una mano. Rendersi utile non è un dovere, non è un obbligo,
né una vocazione ma è la naturale estensione della condivisione dove il duo
diventa un assolo se uno conduce le danze e l’altro si aggrappa inerme e
pesante.
Bianca e Luca si amano, si amano da anni e si sono
scelti solo da un anno e mezzo. Non avevano avuto il coraggio di farlo fino a
quando la vita non aveva preso quei strani giri nei quali non ti resta che
scegliere, messo dinanzi alla certezza dell’ultima possibilità di provare ad
essere felici.
Ma da qualche giorno lei dava di matto e farfugliava
cose che Luca non si sarebbe mai sognato nemmeno di immaginare.
Da quando aveva riallacciato i suoi rapporti con
India - India è il nuovo nome che
Serena, un’ amica di lunga data di Bianca, si è scelta per rinascere nella sua
nuova vita consapevole - erano spuntate
fuori idee strambe, bizzarrie sepolte, trascendentalismi ignoti e Luca aveva
dovuto dar fondo a tutta la comprensione e la capacità di ascolto a cui aveva
sperato di non dover mai ricorrere.
Il suo rapporto con Bianca non era mai stato uno di
quei rapporti convenzionali nei quali sei costretto a pensare e misurare prima
di parlare. Nessuna sovrastruttura preordinata aveva mai fatto da schermata di
belvedere per quei due amanti spiaggiati sulla stessa riva in un giorno di
giugno. Ma le filosofie orientali no, proprio no!
Voglio scegliere di non scegliere era l’ultimo motto
di Bianca e il fatto che fosse uscito fuori nel bel mezzo di un sugo ai
peperoni suggeriva a Luca che probabilmente ignorarlo avrebbe assecondato la
sua inconsistenza, e si sarebbe così dissolto nella spruzzata di pepe a fine
cottura.
“Non c’è nulla
da scegliere, perché scegliere significherebbe irrigidirsi in una posizione, e
irrigidirsi in una posizione significherebbe perdere l’elasticità, della quale
non potrei fare a meno nella ricerca di me stessa!”
Un gatto che si morde la coda: come un fumetto
disegnato nell’aria dalla segreta mano di un fumettista invisibile, ecco
l’immagine che incredibilmente nitida e definita era comparsa dinanzi agli
occhi di Luca.
“Andiamo a
tavola, gustiamoci la cena”.
“Tu credi che se
meditassi qualche ora in più riuscirei a raggiungere l’equilibrio?”.
“Ma quale
equilibrio cerchi, quello sui tuoi tacchi, quello sul motorino, quale?”
“Non c’è molto
da discutere adesso, sei confuso, hai avuto una giornata pesante! Non può che
essere così!”
Era diventato persino difficile intavolare una bella
sfuriata di quelle che fanno tanto bene per fare pace con trasporto.
L’ascetismo forzato di Bianca, le sue candele profumate, i suoi cd new age e i
suoi motti costruiti all’occorrenza irritavano Luca. Lo irritavano davvero, se
si addormentò sul divano stremato e disarmato dal muro di silenzio tirato su
dalla nuova fidanzata che era spuntata al suo fianco al posto di quella
vecchia.
Speriamo solo
non decida di cambiare nome, pensò addormentandosi.
Un battito di palpebre ed era giorno. Che strano
silenzio….Ah no, sta solo meditando!
Bianca era stata sempre una ragazza particolare, ma
giocare a fare la hippy a trent’anni non rientrava nei piani del fidanzato
responsabilmente responsabile che aveva scelto per se con convinzione. E adesso
aveva smesso di farlo, perché le lezioni dal guru insieme ad India le avevano
aperto gli occhi. C’è così poco senso nelle futilità quotidiane! Occorreva a
tutti i costi riappropriarsi di se stessi e l’unico modo per farlo sarebbe
stato non scegliere!
“Bianca, il
caffè, hai fatto il caffè?”. Ancora accartocciato nelle pieghe della
coperta e con la testa mezza sepolta sotto il cuscino, Luca sentiva solo
silenzio. Pensieri futili snocciolati nel miele del dormiveglia – dovrei fare jogging, devo ricordarmi di
portare fuori Diego, oggi è sabato – e il sonno aveva preso di nuovo il
sopravvento, nella penombra rassicurante di sveglie spente e agende chiuse.
Nel frattempo il sole era sorto come tutte le
mattine, gli alberi avevano cominciato ad allungare le loro ombre su strade
trafficate come al solito e i bambini erano tornati a gridare nei parchi
facendosi rincorrere da baby sitter frustrate già alle prime ore del giorno.
All’angolo tra due palazzi dalle facciate
visibilmente sconfitte, tra un parrucchiere per uomini dall’insegna sbiadita e
un piccolo bazar russo, stava Bianca. Avvolta in un lungo cappotto verde,
stringeva tra le mani un giornale stropicciato e, nervosamente, con lo sguardo
lo percorreva da destra a sinistra. India le aveva proposto una nuovissima
interessante esperienza. Ma quale non era stata in grado di dirlo.
Bianca aveva un segreto.
Da un basso portoncino di legno era venuta fuori
India, con un bagaglio troppo grande perché potesse portarlo con disinvoltura. “Bianca, buongiorno”, con il fiatone e i
capelli che le coprivano gran parte del viso, India invitò Bianca a seguirla.
In silenzio camminarono fianco a fianco senza dirsi una parola.
Bianca aveva un segreto, che se avesse avuto il coraggio
di pronunciarlo anche a se stessa avrebbe alleggerito il peso insostenibile
della propria verità. Eh già, perché ognuno ha la sua verità più o meno pesante
da trascinarsi dietro, come un sacco di iuta pieno di bombe ad orologeria
pronte a saltare. I segreti non hanno sempre sfumature scabrose a conferire
loro lo status di segretezza. Un segreto è qualcosa che vuoi che rimanga nel
silenzio della tua testa, che fin quando non lo racconti non diventerà mai
vero. Un segreto è un buco nero dentro cui tieni sotto chiave le parole che non
vuoi dire e le verità che non vuoi che si avverino.
Ma non è come nei libri fantasy in cui una magia può
congelare una realtà e far si che solo alcune cose diventino reali e altre
invece possano sparire in una nuvoletta azzurra dopo un incantesimo.
Bianca aveva scelto di non scegliere e adesso aveva
scelto anche di non scegliere India come colei che avrebbe scelto al suo posto.
Un passo dopo l’altro erano giunte alla fermata dei
bus.
“Ho tutto
quello che ti serve. E poi non serve molto per poter ricominciare”, disse
India abbarbicata alla fermezza della sua voce e al manico del suo bagaglio.
“Non voglio
ricominciare, non voglio scegliere, non voglio palliativi mistici. Voglio
tornare a sentire me stessa vibrare sotto la mia pelle e afferrare la vita per
i capelli. India parti senza di me. La mia città, Luca, la mia casa, la mia
malattia. C’è un modo per essere vivi anche quando non lo sei più molto o non
lo sarai per molto a lungo”.
India trascinò la sua valigia su per le scalette
moquettate di un pullman affollato e scomparve, soffocando nel vocio dei
viaggiatori concitati.
Una zingara con un dente d’oro lì vicino avvicinava
una vecchia donna bionda al cui braccio dondolava una costosissima borsa
griffata; un’anziana disorientata, nel mezzo del piazzale, si guardava attorno
alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla con i suoi cinque grossi bagagli;
un cane senza una gamba zoppicava vicino ad un cassonetto; Bianca si specchiava
con una mano in un minuscolo specchietto da borsa e con l’altra, alla cieca,
trafugava nella borsa troppo grande, alla ricerca di un rossetto rosso.
Troppo tardi per la colazione. Troppo tardi anche per
il pranzo. Dove erano finite le pantofole? Dove era finita Bianca? Diego stava
grattando sulla porta. “Usciamo, forza!”.
Mascherato sotto un cappello, una sciarpa e un paio di occhiali, Luca si era
costretto a passeggiare con quel cane che neppure aveva voluto. Era diventato
parte della famiglia all’improvviso, con tutti i suoi bisogni e il suo
ingombro. Non aveva mai pensato di prendere un cane, figuriamoci un grosso
labrador vivace come Diego. Ma Diego aveva finito per diventare quell’amico paziente
che non ti contraddice quando farfugli cose insensate e ti fa compagnia quando,
nella tua casa vuota sei alla ricerca delle pantofole e della tua donna e non
trovi né le une né l’altra.
Ma la sua donna Luca la trovò. La trovò seduta sul
divano al suo ritorno. Con il guinzaglio in una mano e un mezzo sorriso sulle
labbra, si stava chiedendo cosa quelle labbra rosse e quello sguardo
traboccante parole stessero trattenendo.
Ma Bianca non disse una parola. Gli diede un umido bacio sulla fronte e
scomparve in cucina.
Avrebbe voluto chiederle dove era stata, se avesse
visto India. Avrebbe voluto interessarsi a quella nuova Bianca che con tanta
determinazione si era impadronita di quella vecchia. Ma gli sembrava di vedere
un guscio vuoto con il rossetto indossato di fresco e con tanta voglia di
caffè.
Ogni giorno è uguale ad un altro. Lavoro, capo
pressante, cravatta troppo stretta, cane esigente, fidanzata assente. Fidanzata
assente.
Nessuno aveva detto a Luca che i giorni corrono su
binari troppo dritti perché si possa vederne la fine. Nessuno lo aveva avvisato
dei silenzi che fanno rumore. Nessuno gli aveva fornito la chiave d’accesso ai
segreti non detti.
E mentre il misticismo di Bianca era sparito,
annegato all’improvviso, partito via con India, stipato in una vecchia valigia
di tela ammassata nel portabagagli di un pullman affollatissimo, Luca era
rimasto indietro, ad aspettare che qualcosa lo raggiungesse.
E Bianca aveva sussurrato il suo segreto allo
specchio. E aveva scelto di non scegliere. Non scegliere la vita, non scegliere
la morte. Non scegliere la verità, lasciarsi attraversare.
Fu un sabato mattina quello in cui Bianca scelse di
dormire e Luca di smettere di cercare le sue pantofole.
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