martedì 19 febbraio 2013

LE PANTOFOLE HO SMESSO DI CERCARLE



Le sembrava che il suo animo facesse su e giù, come il vento in autunno, come un’altalena abbandonata sotto un portico in una casa estiva. Le sembrava che ogni giorno fosse il primo giorno di una nuova vita, e che l’attimo esatto dopo il risveglio, il sussurro dopo il sonno, il primo respiro umido dopo la notte fosse lì a condizionare il resto della giornata.
Come un marchio indelebile quel bacio del mattino segnava il grafico dell’intera giornata. Ma quando la vista diventava chiara e il sole iniziava a punzecchiare sotto le palpebre, diventava evidente che sarebbe stata una giornata come le altre, solo da domare sull’onda di quel vento da cui si sentiva scuotere.
Un caffè, una sigaretta, e un giro su stessa.

Si chiama Bianca e il suo nome le calza a pennello. Qualche volta ha creduto di averlo suggerito alla sua mamma dal limbo dei bambini non ancora nati, sussurrandolo in un orecchio mentre dormiva. Si sentiva bianca, come un foglio non ancora scritto, e l’immacolato bagliore del suo non aver ancora deciso la inebriava come poco altro riusciva a fare.
Ha 30 anni e non se ne vergogna, non si vergogna dell’ultima macchietta che, così simile ad una lentiggine, le è spuntata, per il troppo sole, accanto all’occhio destro. Non si vergogna dei tentennamenti che non la lasciano mai mettersi comoda e riposare su prese di posizione cruciali.
“Voglio scegliere di non scegliere” – aveva detto urlando al suo ragazzo, dalla cucina, fra un assaggio di sugo ai peperoni e il ticchettio delle zampe del cane sulla soglia.

 E alla fine arriva la sera e raccoglie la giornata in un fiocco che sa di casa, di finito, di coprifuoco. Arriva sera e riassumi la giornata in uno slancio sul divano e un sospiro di sollievo. Finalmente al sicuro, al sicuro dal giudizio del capo, dal lavoro che incombe, dal timore di sbagliare. A casa ti spogli e anche se sei nudo sei perfettamente a tuo agio, libero dalla gruccia dietro la schiena che per 8 ore ti ha tenuto rigido e controllato. Sciogli il nodo troppo stretto di una cravatta che ogni mattino ti dà il buongiorno come un cappio a festa e fai uno sforzo per rilassare i muscoli della schiena, che a furia di essere tesi per assecondare le pretese di postura di un surreale ufficio di manichini, hanno eretto colonne di marmo come busti invisibili.
Luca, il suo contributo è in lieve calo. La vedo stanco, ha per caso bisogno di un periodo di riposo?”. Che voce odiosa quella del capo che, come un gorgoglio asmatico, rotola dritto nel tuo orecchio sfinito proprio quando inizia il conto alla rovescia per tagliare il traguardo di una giornata lavorativa stremante. Stanco stanco stanco. E vorresti gridare “Certo, sono stanco di dover dimostrare di non essere stanco, del lavoro, di te, brutto fantoccio imbellettato”. Ma sei a casa adesso e gli echi della giornata e i fumi della città li lasci sulla soglia, a confondersi con la polvere depositata sullo zerbino.
Pregusti il sapore dei peperoni che si sciolgono in dolce crema nella padella sul fuoco, osservi il tuo cane che scodinzola pretendendo attenzione e chiacchieri, da una stanza all’altra, con la tua ragazza. E ci chiacchieri come se stessi raccontando cosa hai mangiato a pranzo, ma lei vuole scegliere di non scegliere, cazzo, e tu hai sentito cosa ha detto e non puoi riaffondare nel divano, nella carezza data al tuo cane, nella voce fuori campo della pubblicità del dentifricio.
“Cosa?”
“E’ semplice, voglio scegliere di non scegliere! Cosa dovrei scegliere?”.  A metà strada tra l’indifferente e lo spontaneo, Bianca stava continuando a cucinare, saltellando dalla dispensa al tavolo con tale naturalezza che se lo facesse ad occhi chiusi non causerebbe alcun danno.
 Nel frattempo il suo ragazzo si era alzato dal divano, ma solo per raggiungere le sigarette accanto alla tv. Solo un attimo e Diego, il cane di Bianca, è già lì, in quella conca calda scavata nel divano da tutta la stanchezza di Luca.
“Devi scegliere!” – disse Luca, senza nessun altra possibilità se non quella di andare in cucina a dare una mano. Rendersi utile non è un dovere, non è un obbligo, né una vocazione ma è la naturale estensione della condivisione dove il duo diventa un assolo se uno conduce le danze e l’altro si aggrappa inerme e pesante.

Bianca e Luca si amano, si amano da anni e si sono scelti solo da un anno e mezzo. Non avevano avuto il coraggio di farlo fino a quando la vita non aveva preso quei strani giri nei quali non ti resta che scegliere, messo dinanzi alla certezza dell’ultima possibilità di provare ad essere felici.
Ma da qualche giorno lei dava di matto e farfugliava cose che Luca non si sarebbe mai sognato nemmeno di immaginare.
Da quando aveva riallacciato i suoi rapporti con India -  India è il nuovo nome che Serena, un’ amica di lunga data di Bianca, si è scelta per rinascere nella sua nuova vita consapevole -  erano spuntate fuori idee strambe, bizzarrie sepolte, trascendentalismi ignoti e Luca aveva dovuto dar fondo a tutta la comprensione e la capacità di ascolto a cui aveva sperato di non dover mai ricorrere.
Il suo rapporto con Bianca non era mai stato uno di quei rapporti convenzionali nei quali sei costretto a pensare e misurare prima di parlare. Nessuna sovrastruttura preordinata aveva mai fatto da schermata di belvedere per quei due amanti spiaggiati sulla stessa riva in un giorno di giugno. Ma le filosofie orientali no, proprio no!
Voglio scegliere di non scegliere era l’ultimo motto di Bianca e il fatto che fosse uscito fuori nel bel mezzo di un sugo ai peperoni suggeriva a Luca che probabilmente ignorarlo avrebbe assecondato la sua inconsistenza, e si sarebbe così dissolto nella spruzzata di pepe a fine cottura.
“Non c’è nulla da scegliere, perché scegliere significherebbe irrigidirsi in una posizione, e irrigidirsi in una posizione significherebbe perdere l’elasticità, della quale non potrei fare a meno nella ricerca di me stessa!”
Un gatto che si morde la coda: come un fumetto disegnato nell’aria dalla segreta mano di un fumettista invisibile, ecco l’immagine che incredibilmente nitida e definita era comparsa dinanzi agli occhi di Luca.
“Andiamo a tavola, gustiamoci la cena”.
“Tu credi che se meditassi qualche ora in più riuscirei a raggiungere l’equilibrio?”.
“Ma quale equilibrio cerchi, quello sui tuoi tacchi, quello sul motorino, quale?”
“Non c’è molto da discutere adesso, sei confuso, hai avuto una giornata pesante! Non può che essere così!”
Era diventato persino difficile intavolare una bella sfuriata di quelle che fanno tanto bene per fare pace con trasporto. L’ascetismo forzato di Bianca, le sue candele profumate, i suoi cd new age e i suoi motti costruiti all’occorrenza irritavano Luca. Lo irritavano davvero, se si addormentò sul divano stremato e disarmato dal muro di silenzio tirato su dalla nuova fidanzata che era spuntata al suo fianco al posto di quella vecchia.
Speriamo solo non decida di cambiare nome, pensò addormentandosi.

Un battito di palpebre ed era giorno. Che strano silenzio….Ah no, sta solo meditando!

Bianca era stata sempre una ragazza particolare, ma giocare a fare la hippy a trent’anni non rientrava nei piani del fidanzato responsabilmente responsabile che aveva scelto per se con convinzione. E adesso aveva smesso di farlo, perché le lezioni dal guru insieme ad India le avevano aperto gli occhi. C’è così poco senso nelle futilità quotidiane! Occorreva a tutti i costi riappropriarsi di se stessi e l’unico modo per farlo sarebbe stato non scegliere!
“Bianca, il caffè, hai fatto il caffè?”. Ancora accartocciato nelle pieghe della coperta e con la testa mezza sepolta sotto il cuscino, Luca sentiva solo silenzio. Pensieri futili snocciolati nel miele del dormiveglia – dovrei fare jogging, devo ricordarmi di portare fuori Diego, oggi è sabato – e il sonno aveva preso di nuovo il sopravvento, nella penombra rassicurante di sveglie spente e agende chiuse.

Nel frattempo il sole era sorto come tutte le mattine, gli alberi avevano cominciato ad allungare le loro ombre su strade trafficate come al solito e i bambini erano tornati a gridare nei parchi facendosi rincorrere da baby sitter frustrate già alle prime ore del giorno.
All’angolo tra due palazzi dalle facciate visibilmente sconfitte, tra un parrucchiere per uomini dall’insegna sbiadita e un piccolo bazar russo, stava Bianca. Avvolta in un lungo cappotto verde, stringeva tra le mani un giornale stropicciato e, nervosamente, con lo sguardo lo percorreva da destra a sinistra. India le aveva proposto una nuovissima interessante esperienza. Ma quale non era stata in grado di dirlo.
Bianca aveva un segreto.
Da un basso portoncino di legno era venuta fuori India, con un bagaglio troppo grande perché potesse portarlo con disinvoltura. “Bianca, buongiorno”, con il fiatone e i capelli che le coprivano gran parte del viso, India invitò Bianca a seguirla. In silenzio camminarono fianco a fianco senza dirsi una parola.
Bianca aveva un segreto, che se avesse avuto il coraggio di pronunciarlo anche a se stessa avrebbe alleggerito il peso insostenibile della propria verità. Eh già, perché ognuno ha la sua verità più o meno pesante da trascinarsi dietro, come un sacco di iuta pieno di bombe ad orologeria pronte a saltare. I segreti non hanno sempre sfumature scabrose a conferire loro lo status di segretezza. Un segreto è qualcosa che vuoi che rimanga nel silenzio della tua testa, che fin quando non lo racconti non diventerà mai vero. Un segreto è un buco nero dentro cui tieni sotto chiave le parole che non vuoi dire e le verità che non vuoi che si avverino.
Ma non è come nei libri fantasy in cui una magia può congelare una realtà e far si che solo alcune cose diventino reali e altre invece possano sparire in una nuvoletta azzurra dopo un incantesimo.
Bianca aveva scelto di non scegliere e adesso aveva scelto anche di non scegliere India come colei che avrebbe scelto al suo posto.
Un passo dopo l’altro erano giunte alla fermata dei bus.
“Ho tutto quello che ti serve. E poi non serve molto per poter ricominciare”, disse India abbarbicata alla fermezza della sua voce e al manico del suo bagaglio.
“Non voglio ricominciare, non voglio scegliere, non voglio palliativi mistici. Voglio tornare a sentire me stessa vibrare sotto la mia pelle e afferrare la vita per i capelli. India parti senza di me. La mia città, Luca, la mia casa, la mia malattia. C’è un modo per essere vivi anche quando non lo sei più molto o non lo sarai per molto a lungo”.
India trascinò la sua valigia su per le scalette moquettate di un pullman affollato e scomparve, soffocando nel vocio dei viaggiatori concitati.
Una zingara con un dente d’oro lì vicino avvicinava una vecchia donna bionda al cui braccio dondolava una costosissima borsa griffata; un’anziana disorientata, nel mezzo del piazzale, si guardava attorno alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla con i suoi cinque grossi bagagli; un cane senza una gamba zoppicava vicino ad un cassonetto; Bianca si specchiava con una mano in un minuscolo specchietto da borsa e con l’altra, alla cieca, trafugava nella borsa troppo grande, alla ricerca di un rossetto rosso.

Troppo tardi per la colazione. Troppo tardi anche per il pranzo. Dove erano finite le pantofole? Dove era finita Bianca? Diego stava grattando sulla porta. “Usciamo, forza!”. Mascherato sotto un cappello, una sciarpa e un paio di occhiali, Luca si era costretto a passeggiare con quel cane che neppure aveva voluto. Era diventato parte della famiglia all’improvviso, con tutti i suoi bisogni e il suo ingombro. Non aveva mai pensato di prendere un cane, figuriamoci un grosso labrador vivace come Diego. Ma Diego aveva finito per diventare quell’amico paziente che non ti contraddice quando farfugli cose insensate e ti fa compagnia quando, nella tua casa vuota sei alla ricerca delle pantofole e della tua donna e non trovi né le une né l’altra.

Ma la sua donna Luca la trovò. La trovò seduta sul divano al suo ritorno. Con il guinzaglio in una mano e un mezzo sorriso sulle labbra, si stava chiedendo cosa quelle labbra rosse e quello sguardo traboccante parole stessero trattenendo.  Ma Bianca non disse una parola. Gli diede un umido bacio sulla fronte e scomparve in cucina.
Avrebbe voluto chiederle dove era stata, se avesse visto India. Avrebbe voluto interessarsi a quella nuova Bianca che con tanta determinazione si era impadronita di quella vecchia. Ma gli sembrava di vedere un guscio vuoto con il rossetto indossato di fresco e con tanta voglia di caffè.

Ogni giorno è uguale ad un altro. Lavoro, capo pressante, cravatta troppo stretta, cane esigente, fidanzata assente. Fidanzata assente.
Nessuno aveva detto a Luca che i giorni corrono su binari troppo dritti perché si possa vederne la fine. Nessuno lo aveva avvisato dei silenzi che fanno rumore. Nessuno gli aveva fornito la chiave d’accesso ai segreti non detti.
E mentre il misticismo di Bianca era sparito, annegato all’improvviso, partito via con India, stipato in una vecchia valigia di tela ammassata nel portabagagli di un pullman affollatissimo, Luca era rimasto indietro, ad aspettare che qualcosa lo raggiungesse.
E Bianca aveva sussurrato il suo segreto allo specchio. E aveva scelto di non scegliere. Non scegliere la vita, non scegliere la morte. Non scegliere la verità, lasciarsi attraversare.

Fu un sabato mattina quello in cui Bianca scelse di dormire e Luca di smettere di cercare le sue pantofole.  

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