martedì 19 febbraio 2013

MASSIMO TROISI: UNA MASCHERA ITALIANA



Ci sono personaggi che, per ragioni poco evidenti, fanno parte del nostro background.
L’evidenza della loro appartenenza al nostro tessuto culturale emerge più che altro dal fatto che ne abbiamo ricordo sin dall’età in cui i ricordi si impiantano nella nostra memoria senza che li si possa manovrare.
Il 19 febbraio 1953 nasceva Massimo Troisi, dunque molto prima che io e molti miei coetanei fossimo anche solo nei pensieri dei nostri genitori. Eppure Massimo Troisi, la sua comicità, il suo sguardo adombrato sotto grosse sopracciglia nere fluttuano nelle nostre reminiscenze di bambini, come un vecchio disco sentito per caso e mai più dimenticato.
Fenomeno popolare, di una popolarità teatrale che ha più della vecchia commedia dell’arte che del moderno cabaret di stampo regionalistico, il genio comico di Troisi ha superato le delimitazioni di appartenenza geografica, conquistando il privilegio di veicolare la propria, di appartenenza, rendendola strumento artistico e pretesto comico. Alla domanda sul perché parlasse solo napoletano rispose di saper parlare solo quello, come se il suo dialetto fosse il mezzo irrinunciabile per rimanere fedele a se stessi.
Perché Massimo Troisi apparteneva alla sua Campania, alla sua S. Giorgio a Cremano, alle porte di Napoli, dove nacque da padre ferroviere e madre casalinga. Ebbe un’infanzia e un’adolescenza normalissima, divise tra scuola e teatro parrocchiale. E se non la vita, la strada e l’esperienza che sedimenta attraverso l’osservazione della gente, cosa ha fatto di Massimo il Troisi che l’Italia oggi si porta nel cuore? La non sempre facile comprensione dei dialoghi, a cui lo stesso Troisi rimediò affievolendo le cadenze dialettali e indirizzandosi verso un italiano comunque regionale ma molto più comprensibile, non ha impedito che il senso profondo della sua singolare comicità raggiungesse chiunque. Non serve essere napoletani, campani o meridionali per assorbire il messaggio comico di un’artista come Troisi.
Mitizzare un personaggio dello spettacolo è fin troppo facile in una cultura come la nostra in cui i casi mediatici si impongono con tale prepotenza da piegarci all’emulazione automatica. Certo. Massimo Troisi, però, ha fatto la differenza con una comicità mai fine a se stessa, una carica emozionale dal vago sapore nostalgico e la tipizzazione dell’uomo medio, raffigurato non nelle sue mediocrità, piuttosto nei suoi limiti, nelle sue difficoltà, nelle sue esigenze tutte umane e nel suo bisogno di elevarsi.
Fu considerato il salvatore del cinema italiano, allora ritenuto in crisi, e fu presto paragonato a Totò e ad Eduardo De Filippo, paragone dal quale si discostò con riverenza.
Indimenticabili numerose prove cinematografiche, ognuna a modo suo unica.
Nel 1981 l’esordio alla regia con Ricomincio da tre, che gli valse anche due David di Donatello e 600 giorni di permanenza nella sale cinematografiche, segnò quello che fu un ingresso trionfale nel mondo cinematografico, seguito poi da No grazie, il caffè mi rende nervoso nel 1982 e Scusate il ritardo nel 1983 per arrivare a Non ci resta che piangere nel 1984, attraverso tutta un’altra serie di lavori in cui fu regista e protagonista fino a Il Postino, nel 1994.
Massimo Troisi morì nel sonno il 4 giugno 1994 a causa di problemi cardiaci di cui soffriva sin dall’infanzia.
Mostrò riverenza nei confronti di Totò ed Eduardo sottolineando la grandezza artistica dei suoi due conterranei e il valore del patrimonio da essi lasciato.
Allo stesso modo Massimo Troisi ha lasciato il suo di patrimonio, se di patrimonio si può parlare e non piuttosto di emozioni capaci di rimanere vive, attuali, sempre capaci di strappare un sorriso e far scendere una lacrima allo stesso tempo. Il riso e il pianto sono le due anime dell’uomo. E Massimo Troisi ha permesso che potessero stringersi in un abbraccio attraverso l’Arte.

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