Ci sono personaggi che,
per ragioni poco evidenti, fanno parte del nostro background.
L’evidenza della loro
appartenenza al nostro tessuto culturale emerge più che altro dal fatto che ne
abbiamo ricordo sin dall’età in cui i ricordi si impiantano nella nostra
memoria senza che li si possa manovrare.
Il 19 febbraio 1953
nasceva Massimo Troisi, dunque molto prima che io e molti miei coetanei
fossimo anche solo nei pensieri dei nostri genitori. Eppure Massimo Troisi, la
sua comicità, il suo sguardo adombrato sotto grosse sopracciglia nere fluttuano
nelle nostre reminiscenze di bambini, come un vecchio disco sentito per caso e
mai più dimenticato.
Fenomeno popolare, di
una popolarità teatrale che ha più della vecchia commedia dell’arte che del
moderno cabaret di stampo regionalistico, il genio comico di Troisi ha superato
le delimitazioni di appartenenza geografica, conquistando il privilegio di
veicolare la propria, di appartenenza, rendendola strumento artistico e
pretesto comico. Alla domanda sul perché parlasse solo napoletano rispose di
saper parlare solo quello, come se il suo dialetto fosse il mezzo
irrinunciabile per rimanere fedele a se stessi.
Perché Massimo Troisi apparteneva alla sua Campania, alla sua
S. Giorgio a Cremano, alle porte di Napoli, dove nacque da padre ferroviere e
madre casalinga. Ebbe un’infanzia e un’adolescenza normalissima, divise tra
scuola e teatro parrocchiale. E se non la vita, la strada e l’esperienza che
sedimenta attraverso l’osservazione della gente, cosa ha fatto di Massimo il
Troisi che l’Italia oggi si porta nel cuore? La non sempre facile comprensione
dei dialoghi, a cui lo stesso Troisi rimediò affievolendo le cadenze dialettali
e indirizzandosi verso un italiano comunque regionale ma molto più
comprensibile, non ha impedito che il senso profondo della sua singolare
comicità raggiungesse chiunque. Non serve essere napoletani, campani o
meridionali per assorbire il messaggio comico di un’artista come Troisi.
Mitizzare un
personaggio dello spettacolo è fin troppo facile in una cultura come la nostra
in cui i casi mediatici si impongono con tale prepotenza da piegarci all’emulazione
automatica. Certo. Massimo Troisi, però, ha fatto la differenza con una
comicità mai fine a se stessa, una carica emozionale dal vago sapore nostalgico
e la tipizzazione dell’uomo medio, raffigurato non nelle sue mediocrità,
piuttosto nei suoi limiti, nelle sue difficoltà, nelle sue esigenze tutte umane
e nel suo bisogno di elevarsi.
Fu considerato il salvatore del cinema italiano, allora ritenuto
in crisi, e fu presto paragonato a Totò e ad Eduardo De Filippo, paragone dal
quale si discostò con riverenza.
Indimenticabili
numerose prove cinematografiche, ognuna a modo suo unica.
Nel 1981 l’esordio
alla regia con Ricomincio da tre, che
gli valse anche due David di Donatello e 600 giorni di permanenza nella sale
cinematografiche, segnò quello che fu un ingresso trionfale nel mondo
cinematografico, seguito poi da No
grazie, il caffè mi rende nervoso nel 1982 e Scusate il ritardo nel 1983 per arrivare a Non ci resta che piangere nel 1984, attraverso tutta un’altra serie
di lavori in cui fu regista e protagonista fino a Il Postino, nel 1994.
Massimo Troisi morì
nel sonno il 4 giugno 1994 a causa di problemi cardiaci di cui soffriva sin
dall’infanzia.
Mostrò riverenza nei
confronti di Totò ed Eduardo sottolineando la grandezza artistica dei suoi due
conterranei e il valore del patrimonio da essi lasciato.
Allo stesso modo Massimo
Troisi ha lasciato il suo di patrimonio, se di patrimonio si può parlare e non
piuttosto di emozioni capaci di rimanere vive, attuali, sempre capaci di
strappare un sorriso e far scendere una lacrima allo stesso tempo. Il riso e il
pianto sono le due anime dell’uomo. E Massimo Troisi ha permesso che potessero
stringersi in un abbraccio attraverso l’Arte.
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