venerdì 17 aprile 2015

John Cheever, un outsider con l'urgenza di scrivere

Perchè leggere John Cheever?
John Cheever è la quintessenza della schiettezza, la lama tagliente e calamitica che fende le pagine e risucchia il lettore nella disarmante verità e normalità della periferia, delle vite di uomini qualunque, allo stesso tempo unici ma brutalmente aggrappati alla piega più storta del proprio io.

John Cheever è lo scrittore di cui il professore non ci ha parlato quando studiavamo, l'autore di cui non si regala mai un libro a Natale eppure è uno dei più importanti scrittori del 900, vincitore del premio Pulitzer nel 1979 e autore del capolavoro “Cronache della famiglia Wapshot” e “Bullet Park”.
Vale la pena leggere Cheever perchè, già sfogliando poche pagine di uno dei suoi romanzi, ci si rende conto di essere di fronte all'anima stessa dello scrittore che si fa inchiostro. 


Cheever (1912-1982) era un outsider, secondo figlio non voluto, al punto, come sua madre ha raccontato, che suo padre arrivò a consultare un medico disposto ad eseguire un aborto invitandolo a cena.
Cheever è stato alcolista tutta la vita, uno di quelli seri come alcuni dei personaggi che descrive nei suoi romanzi.
Scorrendo le sue pagine si avverte distintamente l'ansia di scrivere, quasi di espellere che animava la sua mano, la disperazione che spinge alla ricerca della pace, ma anche il cinismo nei confronti di quella mediocrità un po' nevrotica che contrassegna la società di cui si fa così distintamente narratore.

Autore di moltissimi racconti e di cinque romanzi, John Cheever si distingue ad ogni passo per la calma disposizione del narratore che pur lascia che la mente si perda per un attimo nei suoi giri assurdi per riapprodare poi alla linearità della storia e della vita. È romanziere e poeta, dosa con meticolosa determinazione il messaggio, lo centinella in descrizioni puntigliose o lo spiattella nella sua crudità, ornandolo solo dell'urgenza e della sua non mascherabile verità.

Dietro le sue pagine ci sono i sogni inenarrabili dell'uomo medio americano, schiacciato tra le sue nevrosi e la costruzione della sua perfetta casa arredata dalla sua perfetta moglie e popolata dei suoi perfetti figli. C'è la solitudine della periferia, la genuina bellezza della diversità, la rabbia della domanda che non ha risposta e la graffiante perversione dell'essere buoni in un mondo che ci vuole buoni a tutti i costi. C'è anche il destino che non guarda in faccia a nessuno e non conosce nomi.
Tra le pagine di John Cheever leggiamo l'amore, quello sessuale, impellente, ma anche quello delicato che si ripiega su se stesso e si accontenta della sua stessa delicatezza. Quello che è condanna ma anche consolazione.
Impossibile prescindere dal dualismo che sigilla le opere di Cheever, tra giusto e sbagliato, tra bene e male, un dualismo che a ben vedere è la chiave di lettura di quella società d cui John Cheever fu eccelso narratore.

Sosteniamo di possedere l’onestà della disperazione mentre di fatto non facciamo altro che innalzare strutture completamente artificiose di una realtà che possa risultare accettabile, e pervicacemente ci rifiutiamo di riconoscere i termini veri della nostra esistenza” (Bullet Park).

La mia colpa stava nel fatto che pensavo all'amore come a un inebriante distillato di nostalgia, a una forza della memoria che avesse resistito all'analisi della cibernetica. Non ci si innamora, pensavo, ma ci si reinserisce, nell'amore, e io mi ero innamorato di un ricordo, di un filo bianco e di un temporale coi tuoni.” (Bullet Park).

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