mercoledì 24 dicembre 2014

E gli avrei chiesto cosa ne pensa di Yates....






Quando finisco di leggere un libro mi resta sempre una vaga sensazione di incompiuto che mi accompagna per un paio d'ore. 
Il gusto di vivere uno spazio di vita altrui incastonato in un romanzo dalla penna di uno scrittore ha il suo contro nel dover distaccarsi da quelle vite e da quei paesaggi allo stesso modo con cui si dice addio a qualcuno che non rivedrai per moltissimo tempo. Ogni volta immancabilmente mi tornano in mente le parole di un allora assolutamente sconosciuto per me prof. Bronzini che esordì alla prima lezione di letteratura inglese dicendo che il modo migliore per leggere un libro è sicuramente in poltrona, con cell spento e citofono muto in modo da potercisi calare profondamente.
Era la prima volta che vedevo il prof. Bronzini e come prima volta mi fece una bella impressione, così minuscolo davanti ad un’aula zeppa di matricole o quasi, con la sua voce amichevole e con quella frase buttata lì quasi in confidenza.
Da avida lettrice quale sono sempre stata mi parve un buonissimo inizio utile a guidarmi, poi, nel compito di dividere i docenti a cui prestare orecchio da quelli assolutamente indegni di qualsiasi attenzione.
Così ha avuto inizio una incrollabile fiducia nei confronti di alcuni, pochissimi, professori i quali, durante un percorso universitario dei più bizzarri, hanno lasciato il segno nella mia coscienza di lettrice.
L’approdo più difficile ma anche il più soddisfacente è stato però quello che mi ha spinta sulla letteratura anglo-americana. Ora, diciamocelo, chi ha frequentato la mia stessa università nei miei stessi anni sa benissimo che il prof D. faceva paura un po’ a tutti. Si, proprio paura, quella paura che ti spinge a non guardarlo nemmeno negli occhi e a pregare che la sua materia fosse facoltativa quell’anno in modo da poter evitare persino di immaginare il terrore di affrontarlo a lezione.
Ci sono passata anche io per un periodo ma mi è passata in fretta quando ho capito che mi sarebbe piaciuto persino laurearmi con lui. Non posso negare il suo aspetto capace di intimidire chiunque, la sua totale incapacità di sorridere e il tono quasi sempre sospeso fra l’incazzato e l’infastidito. È bastato però andare oltre e godermi delle lezioni pomeridiane frequentate da una classe composta inizialmente di 6 persone      ( per poi ridurci a 3) a farmi capire che lui aveva proprio centrato il segno. Ecco come doveva essere un professore universitario secondo me. E l’ho scoperto tardissimo!!!!
Ancora oggi mi ritrovo a pensare ad alcune riflessioni fatte con lui in classe a proposito di questo o quell’altro romanzo che mai mi sarei sognata di fare insieme ad altri professori. Per non parlare poi della passione e l’amore per la letteratura che si nascondevano dietro quel fare così oscuro. E rimpiango di non poter ancora una volta discutere di questo o quel passaggio perché adesso sì che avrei di cosa discutere con lui.
Quando penso a quel periodo penso a Mrs Dalloway della Wolf e alcuni passaggi sono impressi a fuoco nella mente e hanno sempre lo stesso colore grigio di quello studio in quei giorni di pioggia in cui 6 studenti coraggiosi, subito dopo pranzo, si recavano a discutere a tavolino con un professore che da un secondo all’altro poteva sbuffare o alzare gli occhi al cielo spazientito. Solo ora lo capisco a pieno. La mediocrità di una lettura superficiale è quanto meno insostenibile quando quello che ti spinge ad aprire un libro, a leggerlo, rileggerlo, è amore puro.
Sarei stata felice di discutere di Richard Yates oggi con quel professore perché forse a questo servono le due ore di vaga incompiutezza dopo aver voltato l’ultima pagina di un libro: a sintetizzarne le emozioni.

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