Quando finisco di leggere un
libro mi resta sempre una vaga sensazione di incompiuto che mi accompagna per
un paio d'ore.
Il gusto di vivere uno spazio di vita altrui incastonato in un
romanzo dalla penna di uno scrittore ha il suo contro nel dover distaccarsi da
quelle vite e da quei paesaggi allo stesso modo con cui si dice addio a
qualcuno che non rivedrai per moltissimo tempo. Ogni volta immancabilmente mi
tornano in mente le parole di un allora assolutamente sconosciuto per me prof.
Bronzini che esordì alla prima lezione di letteratura inglese dicendo che il
modo migliore per leggere un libro è sicuramente in poltrona, con cell spento e
citofono muto in modo da potercisi calare profondamente.
Era la prima volta che vedevo il
prof. Bronzini e come prima volta mi fece una bella impressione, così minuscolo
davanti ad un’aula zeppa di matricole o quasi, con la sua voce amichevole e con
quella frase buttata lì quasi in confidenza.
Da avida lettrice quale sono
sempre stata mi parve un buonissimo inizio utile a guidarmi, poi, nel compito
di dividere i docenti a cui prestare orecchio da quelli assolutamente indegni
di qualsiasi attenzione.
Così ha avuto inizio una incrollabile
fiducia nei confronti di alcuni, pochissimi, professori i quali, durante un
percorso universitario dei più bizzarri, hanno lasciato il segno nella mia
coscienza di lettrice.
L’approdo più difficile ma anche
il più soddisfacente è stato però quello che mi ha spinta sulla letteratura
anglo-americana. Ora, diciamocelo, chi ha frequentato la mia stessa università
nei miei stessi anni sa benissimo che il prof D. faceva paura un po’ a tutti.
Si, proprio paura, quella paura che ti spinge a non guardarlo nemmeno negli
occhi e a pregare che la sua materia fosse facoltativa quell’anno in modo da
poter evitare persino di immaginare il terrore di affrontarlo a lezione.
Ci sono passata anche io per un
periodo ma mi è passata in fretta quando ho capito che mi sarebbe piaciuto
persino laurearmi con lui. Non posso negare il suo aspetto capace di intimidire
chiunque, la sua totale incapacità di sorridere e il tono quasi sempre sospeso
fra l’incazzato e l’infastidito. È bastato però andare oltre e godermi delle
lezioni pomeridiane frequentate da una classe composta inizialmente di 6
persone ( per poi ridurci a 3) a
farmi capire che lui aveva proprio centrato il segno. Ecco come doveva essere
un professore universitario secondo me. E l’ho scoperto tardissimo!!!!
Ancora oggi mi ritrovo a pensare
ad alcune riflessioni fatte con lui in classe a proposito di questo o quell’altro
romanzo che mai mi sarei sognata di fare insieme ad altri professori. Per non
parlare poi della passione e l’amore per la letteratura che si nascondevano
dietro quel fare così oscuro. E rimpiango di non poter ancora una volta
discutere di questo o quel passaggio perché adesso sì che avrei di cosa
discutere con lui.
Quando penso a quel periodo penso
a Mrs Dalloway della Wolf e alcuni passaggi sono impressi a fuoco nella mente e
hanno sempre lo stesso colore grigio di quello studio in quei giorni di pioggia
in cui 6 studenti coraggiosi, subito dopo pranzo, si recavano a discutere a
tavolino con un professore che da un secondo all’altro poteva sbuffare o alzare
gli occhi al cielo spazientito. Solo ora lo capisco a pieno. La mediocrità di
una lettura superficiale è quanto meno insostenibile quando quello che ti
spinge ad aprire un libro, a leggerlo, rileggerlo, è amore puro.
Sarei stata felice di discutere
di Richard Yates oggi con quel professore perché forse a questo servono le due
ore di vaga incompiutezza dopo aver voltato l’ultima pagina di un libro: a sintetizzarne
le emozioni.
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