Bali Nine è il nome dato ad un gruppo di nove australiani arrestati
il 17 aprile 2005 a Denpasar, Bali, Indonesia, in un piano per
contrabbandare 8,3 kg di eroina dall'Indonesia all'Australia. Andrew
Chan, Si Yi Chen, Michael Czugaj, Renae Lawrence, Tan Duc Thanh
Nguyen, Matthew Norman, Scott Rush, Martin Stephens e Myuran
Sukumaran, tutti di età compresa tra 18 e 28 al momento del loro
arresto.
Dei nove, Andrew Chan e
Myuran Sukamaran, considerati a capo della banda, sono stati
condannati a fucilazione e hanno trascorso gli ultimi dieci anni in
attesa di una sentenza definitiva e una data per la loro esecuzione.
Il mondo intero ha fatto
appello al presidente indonesiano affinchè valutasse e
riconsiderasse la sua decisione ma a niente sono valsi persino i
numerosi interventi ufficiali da parte del governo australiano.
Diversi compagni di cella hanno offerto le proprie vite per salvare i
due australiani ma nemmeno questo ha spinto il presidente a mettere
in discussione il verdetto, completamente cieco dinanzi al
cambiamento che ha interessato i due ragazzi negli ultimi 10 anni
dietro le sbarre. Ha inoltre affermato l'incontrovertibilità della
condanna e l'irrilevanza di qualsiasi variabile.
Oggi, 29 aprile 2015,
alle ore 3.36 australiane, i due condannati hanno affrontato la
fucilazione avuta luogo nell'isola Nusa Kambangan, nonostante il
processo stesse ancora facendo il suo corso.
In seguito alla notifica
fornita dal procuratore generale 72 ore fa, Chan e Sukamaran hanno
avuto la possibilità di passare del tempo con la propria famiglia e
Chan ha sposato la sua fidanzata poche ore prima di essere
giustiziato.
Il governo indonesiano ha
negato ai condannati il supporto spirituale da loro richiesto per
affrontare le ultimissime ore della loro vita proponendo dei capi
spirituali scelti dal governo stesso in accordo con le rispettive
religioni.
Sono stati svegliati nel
mezzo della notte, bendati, condotti su un prato e data loro la
possibilità di stare in piedi o seduti. Un plotone di dodici
fucilieri, di cui 9 con pallottola a salve e tre con veri proiettili,
ha fatto fuoco al petto dei condannati. Così finisce la vicenda di
Chan e Sukamaran.
Quel che lascia più
sconcertati della ormai notissima vicenda dei Bali Nine non è tanto
la condanna a morte in sè, che non rende l'Indonesia diversa da
altri stati nel mondo, ma la brutalità con cui la pena di morte sia
stata inflitta e riconosciuta definitivamente come strumento di
governo.
La lotta al traffico di
stupefacenti intrapresa dal presidente indonesiano risponde ad una
logica irrazionale e folle per cui coloro che si macchiano della
colpa di traffico di narcotici vengono equiparati a coloro che si
macchiano della colpa di omicidio.
La vicenda dei Bali Nine
è ancora più sconcertante per la determinazione che il presidente
in persona ha dimostrato nell'eseguire, e al più presto,
l'esecuzione. Gli appelli per vie legali, come le suppliche a cuore
aperto da parte di ministri, presidenti e celebrità, così come
anche di milioni di persone comuni nel mondo, non ha intaccato il
pugno di ferro della presidenza indonesiana.
Il processo, ancora in
corso, sembra essere passato in secondo piano rispetto ad una vicenda
che ormai ha assunto dimensione internazionale sollevando
un'incredulità che oggi si trasforma in impotenza e rabbia.
La pena di morte in
Indonesia è, senza ormai nessuna ombra di dubbio, una forma
istituzionalizzata di gestione della giustizia la quale si dichiara,
nelle parole del presidente, assolutamente necessaria.
L'irragionevolezza della sua decisione ha dello spaventoso e ancora
più terrificante è la risolutezza che ha portato il presidente
indonesiano a dichiarare che nella valutazione dei singoli casi
giudiziari non ha alcun peso il processo di riabilitazione dei
condannati. L'unico valore determinante sono i numeri, i kili
trasportati e il reato in sè. Come un ariete cieco, il presidente ha
sfondato ogni tentativo di razionalizzazione e con quello che sembra
profilarsi come un atto di forza, ha sostenuto la validità di questa
barbarie completamente sordo anche ai minimi principi della
dichiarazione dei diritti umani.
Nessun paragone è in
grado di abbracciare la brutalità con cui questo uomo, a capo di un
governo di uomini, ha affermato la sua assoluta invincibilità. La
morte di Chan e Sukamaran segna il totale annullamento di democrazia
e non solo in Indonesia, ma ovunque nel mondo, implicando
un'impotenza, istituzionale e non, nei confronti di un sistema,
quello indonesiano in questo caso, che in questa occasione ha fatto
le spalle grosse per ragioni di autoaffermazione forse o forse no ma
che di certo ha fatto sfoggio del peggiore dei lati umani.
Questa è la mano che
uccide convinta di educare. E questo sembra aver voluto affermare il
presidente indonesiano, il potere educativo del suo operato e
l'impeccabilità di una scala di valori che pur annovera la
preghiera. Le fonti governative, infatti, hanno dichiarato in maniera
agghiacciante che l'esecuzione non ha visto nessun imprevisto e che,
così come previsto dal protocollo di governo, gli esecutori hanno
recitato le preghiere di rito sui corpi che avevano appena sparato.
Siamo alla follia.
Non c'è logica che regga
dove della giustizia resta solo l'incontrovertibile e autoconferito
diritto di un uomo a togliere la vita di un altro. È la gerarchia
che vede al suo vertice il potente in una politica del terrore che
veste i panni della giustizia.
È quella stessa vecchia
storia che ha visto piccolissimi uomini innalzarsi sul piedistallo
della loro follia
Nessun commento:
Posta un commento