Il Melbourne Cup è finito, le
signorine hanno riposto i loro cappellini nell'armadio, i giovanotti affrontano
un hang over che potevano risparmiarsi, i vecchiotti inorridiscono perché il
Melbourne cup ospita ormai concorrenti dall'estero e intanto due cavalli sono
schiattati per la fatica. L'orgoglio nazionale si gonfia di un appello alla
tradizione che vuole essere sacro a tutti i costi, mentre i controsensi si
sprecano.
La fiera dell’imbecillità si è
esaurita in polemiche che sembrano contestuali, ovvie e fisiologiche di un
evento di quella portata ma che in realtà sono l’aspetto più basso di una
cultura che si aggrappa alla bene e meglio a specchi rotti.
Il Melbourne Cup, per cui gli
animi australiani si infiammano e il paese si ferma, è un’antichissima corsa di
cavalli che ha luogo ogni anno nello stato del Victoria a partire dal 1861.
Il ripetersi ciclico e costante
di questa ormai consolidata celebrazione nazionale, che per il vero ha un più
evidente sapore anglosassone che altro, ha fatto sì che l’evento sia ormai
percepito come l’evento per eccellenza, portatore di una valore (mi chiedo
quale) che ambisce a commemorare la lunga tradizione di una paese dalla storia
cortissima.
In realtà per ridurre la
questione, il Melbourne Cup è un evento nazionale, di portata internazionale
ormai, che consiste fondamentalmente in una corsa di cavalli super pompati
guidati da fantini molto competitivi provenienti da tutto il mondo, con un
premio finale a molti zeri.
La portata dell’evento
naturalmente porta con sé un entusiasmo contagioso che ben poco ormai ha a che
fare con la tradizione e molto con la competizione e con lo sfoggio fashion tipico
di questo tipo di eventi.
Dunque cosa accade?
Mentre i
cavalli, che sono i veri protagonisti dell’evento, sono caricati allo stremo, dagli
spalti le donne sorseggiano cocktail sfoggiando il loro cappellino e gli uomini
scommettono. Grandi festeggiamenti per il vincitore e la morte per alcuni
cavalli.
Ciò che da non australiana mi
inorridisce e non poco è la gigantesca contraddizione di un evento che pretende
di rappresentare il picco dell’orgoglio nazionale il quale stento a credere
abbia la sua potenziale massima espressione in cappellini piumati, cavalli
bardati a festa e boccali di birra.
Ciò che va poi specificato è la
considerazione particolare che gli australiani riservano ai cavalli. Perché poi
di questo si tratta. Più di una volta, se venite qui in Australia, vi capiterà
di assistere a facce inorridite o intenerite a seconda dei casi di fronte alla
scoperta che in alcune parti del mondo, come per esempio in Italia, la carne di
cavallo finisce nei piatti.
Qui il cavallo viene considerato
alla stregua di un animale domestico. Moltissimi hanno cavalli per diletto o
per passione e mai sia che gli venga detto che la carne di cavallo è altamente
proteica e salutare. Equivarrebbe a dire che la carne di cane è buona e che
quella di gatto fa bene alla salute. Tutti giù a difendere il cavallo quasi
come un animale sacro salvo poi gioire quando sotto il frustino del fantino
corre corre corre per dimostrare cosa? Forse che i cavalli australiani sono
forti, che i fantini sono in gamba o che l’Australia ha una tradizione sportiva
solida?
Lungi dal fare l’animalista
ottusa che boicotta ogni qualsivoglia genere di competizione in cui gli animali
sono coinvolti, con estrema logica mi chiedo se il Melbourne Cup possa essere
ancora un evento comunemente accettabile in nome di una tradizione che viene
strumentalizzata per puro orgoglio nazionale. L’orgoglio di una nazione, la
forza di una cultura stanno sempre lì dove c’è anche la capacità di migliorarsi,
costruirsi, modificarsi con la sua massima potenzialità, con i suoi strumenti e
con il coraggio di togliersi i paraocchi.
PS. E non penso da meno della
corrida e della festa di San Firmino durante la quale un manipolo di pazzi corre
per le stradine di Pamplona davanti ad una mandria di tori imbizzarriti.
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