Di recente i social network proliferano di liste, i film
migliori, i più bei libri letti, i 10 dischi che ci hanno cambiato la vita, le
migliori serie televisive. Versioni 2.0 di quelle letterine che chiamavamo
catene di Sant’Antonio e che periodicamente ci ritrovavamo senza mittente nella
cassetta della posta durante i primi anni 90, questa declinazione cyber della
cultura si è liberata del suo tallone d’Achille, la minaccia del “ti capiterà
qualcosa di brutto se non invii questa catena ad altre 10 persone entro 2
giorni”, sostituendola con un invito a condividere la propria top ten con
altri.
I più critici non hanno mancato di sottolineare come dietro
tutto ciò ci sia un’operazione di raccolta dati approntata dai grandi brand
editoriali, discografici e cinematografici allo scopo di studiare le tendenze e
dettagliare i propri target. Non mi meraviglierei se così fosse ma non ci vedo
niente di riprovevole in questo, non più riprovevole di ben più subdole
pratiche di controllo che ci trasformano in consumatori compulsivi e produttori
di desideri, soddisfatti poi diligentemente da chi controlla l’andamento del
mercato.
E allora che ben venga che ristampino Il ritratto di Dorian
Grey e che lo rilancino sul mercato o che magari qualche adolescente oggi butti
nel cesso Moccia e riprenda in mano Kerouac. Non credo nemmeno che questo
social sharing incoraggi all’uniformità dei gusti perché se i social network
hanno un pregio è proprio quello di rendere globale lo sharing senza riuscire
mai perfettamente a globalizzare il contenuto.
La cultura è una crociata che si combatte con le armi che si
hanno a disposizione e non c’è altra coniugazione per la cultura che la
diffusione, anche quella disordinata (che non significa approssimativa),
arrabbiata, virale, selezionata, contagiosa, anche subdola ma non è attraverso
gli altri che ci mettiamo in discussione e non è dal passaparola, dalla
condivisione che sono passati gli scrittori, gli artisti e i musicisti che
amiamo oggi?
Penso alla Factory di Andy Warhol e non mi viene in mente
niente di più sovversivo ma anche modaiolo, attrattivo e cult che possa essere
paragonato a quella che in effetti fu una genialata. Essere ammessi alla
Factory significava essere arrivati, essere in vetrina e di certo l’artista che
si esibiva alla Factory si è concesso anche il lusso, almeno una volta, di
gonfiarsi d’orgoglio dinanzi allo sfigatello che esponeva nel piccolo club
fuori Manhattan. Di certo nessuno sperava di passare dalla Factory senza
sperare di essere notato da una grande etichetta discografica o dal curatore di
un’illustre Gallery. Era avanguardia, modernità e sovversione. Ma era cool.
Come è cool oggi pubblicare la propria lista di film
preferiti, crearsi una pagina fb per dare visibilità ai propri talenti e
sperare nel frattempo che qualcuno legga il tuo blog e lo trovi interessante, o
inizi a leggere quel libro che ritieni vada letto a tutti i costi, o si
incuriosisca a quel pittore che non conosceva e che tu speri venga apprezzato
di più.
La cultura non è un fatto privato (non deve!), non è mai
stata avulsa dai meccanismi commerciali, né in questo si svilisce soprattutto
quando diventiamo consapevoli che lo strumento per fermare i Moccia e i
Twilight ce lo abbiamo noi.
Non è l’industria che contagia noi, siamo noi che contagiamo
l’industria. Questa è la miglior forma di ribellione.
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