Una chiacchierata con un’amica che non vedevo da
tempo e improvvisamente mi è parso di voler sputare fuori un mare di amarezza
per accorgermi poi che mi stavo guardando allo specchio. E la mia amica era lì
esattamente come me a cercare di gestire l’incredulità di doversi sentire
diversa, come me, ma forzatamente inghiottita in una classificazione che ci
timbra come “i giovani”.
Non ci si sente più tanto giovani quando si avverte l’amarezza
di non sentirsi collocati , né riconosciuti per specifiche qualità. Perché la
specificità ha lasciato il posto ad una confusione identificativa che gode di
se stessa e per la quale sei quello che la società decide che tu sia.
La questione del lavoro è quella che in modo più
pressante tiranneggia su tutte, perché senza lavoro non si mangia e soprattutto
perché il lavoro definisce ciò che siamo all’interno della società in termini
di contributi, valore aggiunto, differenziazione di ruoli, collaborazione e
crescita di movimento economico.
È bastata una
chiacchierata con un’amica che non vedevo da tempo e la prevedibile volontà di
aggiornarci sulle nostre rispettive situazioni si è ben presto trasformata in
una amara, e a tratti arrabbiata , constatazione della complessità dei fatti,
ma non solo, anche della certezza di una volontà altra che tende sempre a
volerli semplificare nella loro confusione. E i fatti sono che per il momento l’Italia
non ha un posto per noi. Dico per il momento perché immagino che una grossa
svolta, nel bene e nel male ci sarà, ma non sarà adesso.
La strategia di condizionamento sociale che
evidentemente ha seminato in tempi non sospetti, sta raccogliendo i suoi frutti
alla grandissima in questo momento. Creati i bisogni adesso è tempo di
soddisfarli e ognuno di noi, a ben vedere, in questo specifico momento storico,
ha bisogni a cui non può provvedere. Le aziende stanno giocando sulla
disperazione della gente e, ad una bella presentazione con tanto di dimostrazione
di avanguardismo, che poi è tutto finto e scopiazzato dalle grandi
multinazionali d’oltreoceano, mirato ad assicurarti una serenità piuttosto rara
di questi tempi, si sporcano le mani con proposte di collaborazioni
irrinunciabili se ci si fa buttare il fumo negli occhi così, ma assolutamente
indignitose per chi si propone ad un’azienda
con la volontà di portare a quell’azienda valore aggiunto. Lo scheletro di una solida
realtà di mercato credo possa farlo solo quello che all’agenzie e ai grandi
manager piace chiamare risorse umane, ma che non vengono più considerate come
risorse.
Riforme delle leggi sul lavoro sono miraggi ormai, e
abbiamo anche fatto fatica ad orientarci nella giungla di tipologie di
contratti, ma ci siamo riusciti e probabilmente stiamo anche comprendendo
quanta comodità quella varietà reca con sé: la comodità di avere una proposta “scandalo”
ad hoc per ogni categoria di potenziale risorsa.
Si sconfina così dal campo della legislazione che
permette tutto al campo dell’integrità individuale che fa fatica a scegliere i
compromessi. Il compromesso è quasi sempre quello fra la propria necessità
impellente di affermarsi, soddisfarsi, crescere e migliorarsi, e quella di
accontentarsi per forza di cose, tra l’altro convincendosi dell’irrinunciabilità
dell’occasione. Il mondo del lavoro si regge certamente su compromessi che
però, naturalmente, dovrebbero limitarsi al soddisfacimento di giuste soluzioni
per entrambe le parti senza che nessuna delle due si trovi in una posizione
forte.
La filosofia dell’apparenza ha risucchiato persino la
capacità delle aziende di essere sul mercato, costringendole per un certo verso
ad applicare strategie discutibili per rimanere sulla cresta dell’onda e allo
stesso tempo per mantenere invariata la competitività. Ognuno fa marketing su
se stesso e lo fa, talvolta, con una tale scorrettezza e una incalcolabile
trasparenza da lasciar passare il messaggio che è così che va il mondo.
A questo va aggiunta (i giornali non ne parlano mai
nel loro generalismo, come non ne parlano mai probabilmente nemmeno i
sociologi) la difficoltà di doversi sentire diversi, mal giudicati e ingrati
quando, per integrità e convinzione, si preferisce rifiutare un compromesso che
si è ritenuto inaccettabile. Per cui piovono gli “adesso dovresti accontentarti”,
“lavorare gratis è normale”, “semina oggi, raccoglierai domani” e tutte le
varie baggianate con cui ci hanno riempito la testa. LAVORARE GRATIS NON è
NORMALE. Non è normale nemmeno assecondare un sistema a cui facciamo comodo. La
progettualità di ognuno di noi muore all’accettazione di un compromesso che ci
vuole accondiscendenti nei confronti di un certo modo di fare. È un ricatto
morale sottolineare ad un candidato in un colloquio di lavoro la sua
inoccupazione a motivazione della sua necessità di accettare quel determinato
lavoro, fra l’altro a condizioni su cui non ha diritto di discutere. La strategia
più in voga, che probabilmente risulta ignota a tutti i front man (politici,
esperti, ministri, etc) che si riempiono l’ego e la visibilità attraverso
valutazioni di realtà che nemmeno conoscono, è quella della proposta lavorativa
programmata in base alla specifica condizione del candidato. Mi chiedo se sia
onesto che un’azienda affermata e avviata si informi sulle professioni di ogni
membro della famiglia del candidato, che si informi sulla potenziale
possibilità di una gravidanza nei casi delle donne, che faccia firmare dichiarazioni
di silenzio o accordi che prevedono uso di contraccettivi sicuri per i
successivi due anni per scampare il pericolo maternità e che pongano queste
come condizioni imprescindibili per l’avvio o meno di un rapporto di
collaborazione. Mi chiedo se sia normale fare un’analisi grafologica in sede di
colloquio senza informare il candidato della sua validità e delle modalità con
cui verrà eseguita. Mi chiedo se ognuno di noi meriti di sentirsi chiamare
choosy solo perché decide di non accondiscendere a questo atteggiamento
mafioso. Sì, mafioso. È mafioso imporre con ricatto una condizione
sottolineando un bisogno.
Non c’è commiserazione nella mia rabbia, perché la
soluzione mi è chiara: dire no. Dire no a chi sceglie di fare della crisi una
comodità invece di fare la differenza per risollevarci. Dire no anche a chi crede che sia possibile
raccontarci qualsiasi cosa perché ce le beviamo tutte. Dire no soprattutto a
chi ci chiama ingrati.
Non voglio accettare l’elemosina di un lavoro
concesso a sforzo per illudermi di gratificare la mia personalità quando invece
mi sto solo piegando ad una logica malata.
Cominciamole a raccontare invece le verità per le
quali ci comprerebbero con poco.
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