sabato 9 marzo 2013

RIGURGITO DI UNA DISOCCUPATA



Una chiacchierata con un’amica che non vedevo da tempo e improvvisamente mi è parso di voler sputare fuori un mare di amarezza per accorgermi poi che mi stavo guardando allo specchio. E la mia amica era lì esattamente come me a cercare di gestire l’incredulità di doversi sentire diversa, come me, ma forzatamente inghiottita in una classificazione che ci timbra come “i giovani”.
Non ci si sente più tanto giovani quando si avverte l’amarezza di non sentirsi collocati , né riconosciuti per specifiche qualità. Perché la specificità ha lasciato il posto ad una confusione identificativa che gode di se stessa e per la quale sei quello che la società decide che tu sia.
La questione del lavoro è quella che in modo più pressante tiranneggia su tutte, perché senza lavoro non si mangia e soprattutto perché il lavoro definisce ciò che siamo all’interno della società in termini di contributi, valore aggiunto, differenziazione di ruoli, collaborazione e crescita di movimento economico.
È  bastata una chiacchierata con un’amica che non vedevo da tempo e la prevedibile volontà di aggiornarci sulle nostre rispettive situazioni si è ben presto trasformata in una amara, e a tratti arrabbiata , constatazione della complessità dei fatti, ma non solo, anche della certezza di una volontà altra che tende sempre a volerli semplificare nella loro confusione. E i fatti sono che per il momento l’Italia non ha un posto per noi. Dico per il momento perché immagino che una grossa svolta, nel bene e nel male ci sarà, ma non sarà adesso.
La strategia di condizionamento sociale che evidentemente ha seminato in tempi non sospetti, sta raccogliendo i suoi frutti alla grandissima in questo momento. Creati i bisogni adesso è tempo di soddisfarli e ognuno di noi, a ben vedere, in questo specifico momento storico, ha bisogni a cui non può provvedere. Le aziende stanno giocando sulla disperazione della gente e, ad una bella presentazione con tanto di dimostrazione di avanguardismo, che poi è tutto finto e scopiazzato dalle grandi multinazionali d’oltreoceano, mirato ad assicurarti una serenità piuttosto rara di questi tempi, si sporcano le mani con proposte di collaborazioni irrinunciabili se ci si fa buttare il fumo negli occhi così, ma assolutamente indignitose per chi si propone ad  un’azienda con la volontà di portare a quell’azienda valore aggiunto. Lo scheletro di una solida realtà di mercato credo possa farlo solo quello che all’agenzie e ai grandi manager piace chiamare risorse umane, ma che non vengono più considerate come risorse.
Riforme delle leggi sul lavoro sono miraggi ormai, e abbiamo anche fatto fatica ad orientarci nella giungla di tipologie di contratti, ma ci siamo riusciti e probabilmente stiamo anche comprendendo quanta comodità quella varietà reca con sé: la comodità di avere una proposta “scandalo” ad hoc per ogni categoria di potenziale risorsa.
Si sconfina così dal campo della legislazione che permette tutto al campo dell’integrità individuale che fa fatica a scegliere i compromessi. Il compromesso è quasi sempre quello fra la propria necessità impellente di affermarsi, soddisfarsi, crescere e migliorarsi, e quella di accontentarsi per forza di cose, tra l’altro convincendosi dell’irrinunciabilità dell’occasione. Il mondo del lavoro si regge certamente su compromessi che però, naturalmente, dovrebbero limitarsi al soddisfacimento di giuste soluzioni per entrambe le parti senza che nessuna delle due si trovi in una posizione forte.
La filosofia dell’apparenza ha risucchiato persino la capacità delle aziende di essere sul mercato, costringendole per un certo verso ad applicare strategie discutibili per rimanere sulla cresta dell’onda e allo stesso tempo per mantenere invariata la competitività. Ognuno fa marketing su se stesso e lo fa, talvolta, con una tale scorrettezza e una incalcolabile trasparenza da lasciar passare il messaggio che è così che va il mondo.
A questo va aggiunta (i giornali non ne parlano mai nel loro generalismo, come non ne parlano mai probabilmente nemmeno i sociologi) la difficoltà di doversi sentire diversi, mal giudicati e ingrati quando, per integrità e convinzione, si preferisce rifiutare un compromesso che si è ritenuto inaccettabile. Per cui piovono gli “adesso dovresti accontentarti”, “lavorare gratis è normale”, “semina oggi, raccoglierai domani” e tutte le varie baggianate con cui ci hanno riempito la testa. LAVORARE GRATIS NON è NORMALE. Non è normale nemmeno assecondare un sistema a cui facciamo comodo. La progettualità di ognuno di noi muore all’accettazione di un compromesso che ci vuole accondiscendenti nei confronti di un certo modo di fare. È un ricatto morale sottolineare ad un candidato in un colloquio di lavoro la sua inoccupazione a motivazione della sua necessità di accettare quel determinato lavoro, fra l’altro a condizioni su cui non ha diritto di discutere. La strategia più in voga, che probabilmente risulta ignota a tutti i front man (politici, esperti, ministri, etc) che si riempiono l’ego e la visibilità attraverso valutazioni di realtà che nemmeno conoscono, è quella della proposta lavorativa programmata in base alla specifica condizione del candidato. Mi chiedo se sia onesto che un’azienda affermata e avviata si informi sulle professioni di ogni membro della famiglia del candidato, che si informi sulla potenziale possibilità di una gravidanza nei casi delle donne, che faccia firmare dichiarazioni di silenzio o accordi che prevedono uso di contraccettivi sicuri per i successivi due anni per scampare il pericolo maternità e che pongano queste come condizioni imprescindibili per l’avvio o meno di un rapporto di collaborazione. Mi chiedo se sia normale fare un’analisi grafologica in sede di colloquio senza informare il candidato della sua validità e delle modalità con cui verrà eseguita. Mi chiedo se ognuno di noi meriti di sentirsi chiamare choosy solo perché decide di non accondiscendere a questo atteggiamento mafioso. Sì, mafioso. È mafioso imporre con ricatto una condizione sottolineando un bisogno.
Non c’è commiserazione nella mia rabbia, perché la soluzione mi è chiara: dire no. Dire no a chi sceglie di fare della crisi una comodità invece di fare la differenza per risollevarci.  Dire no anche a chi crede che sia possibile raccontarci qualsiasi cosa perché ce le beviamo tutte. Dire no soprattutto a chi ci chiama ingrati.
Non voglio accettare l’elemosina di un lavoro concesso a sforzo per illudermi di gratificare la mia personalità quando invece mi sto solo piegando ad una logica malata.
Cominciamole a raccontare invece le verità per le quali ci comprerebbero con poco.

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