Quante probabilità ci sono, su un milione, di conoscere una conterranea
della peggior specie a 600 km da casa proprio quando avevi deciso di mettere
tra te e quella che ormai, per mancanza di vocaboli, continuavi a chiamare
casa( ma solo per quello), tutti quei kilometri?
L’amore per la mia terra, l’attaccamento viscerale per l’odore che emanano i
campi quando piove, persino l’incondizionato affetto per le anziane donne che
resistono al tempo e alle loro sedioline di legno fuori dall’uscio di casa non
sono stati sufficienti a inchiodarmi alla lingua di terra caldissima che mi
allevata. Tutto rimane lì a pizzicare le corde un po’ scordate del ricordo, ma
nulla ha avuto la meglio sul peso delle mie valige. Quel che mi ha aiutato,
poi, a prepararle più in fretta è stata l’amara osservazione di quel muro
invisibile che, per quanto lo si voglia negare, esiste e si erge sottile nella
sua imponenza a tenere distanti due metà di paese e con esse due carovane di
uomini, che hanno camminato davvero sotto soli diversi. E se la voglia di
scavalcare quelle che chiamano appartenenze appare così evidente nelle
ambizioni, nelle parole infiammate, nelle migrazioni verticali di massa, dietro
a quel desiderio di aprirsi a questa Italia che corre impazzita rimane
accovacciata un’eredità che non ci siamo scelti e non abbiamo pregato di avere:
il peso delle generazioni del passato. Ieri ho cominciato a leggere la
biografia di Marx e sebbene Marx continui a portarsi attaccato addosso il peso
dirompente della sua persona, a poche pagine dall’inizio, una frase leggera per
la sua inconfutabile verità ha arrestato per un attimo la mia lettura. Ne Il
diciotto brumaio di Luigi Bonaparte scriveva: “la tradizione di tutte le
generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi”. Mi sono
sorpresa dinanzi alla limpidità di un’asserzione così vera. Non veniamo dal
nulla e non siamo mai solo figli di chi ci ha concepito, ma siamo
imprescindibilmente figli della nostra terra e delle generazioni scomparse che
ci hanno preceduto. Che incantevole constatazione eh? Ma non è poi così
incantevole quando le generazioni scomparse ti ammanettano a chiusure che non
vuoi.
Così accade che altrettante generazioni di viventi si illudano di avere
un’ampiezza di prospettive che non li sfiora neanche e si ritrovano a
scimmiottare atteggiamenti di competenza e padronanza come se volessero gridare
ogni minuto ai quattro venti “Io ci so stare al mondo, sono libero, emancipato,
sradicato e assolutamente in grado di accordarmi con ciò che il mondo vuole da
me” credendo di ammantarsi di un’aura di splendore capace di ammaliare gli
astanti, apprendisti cittadini del mondo.
Così è accaduto che la conterranea emancipata mi sia stata affibbiata, in
terra felsinea, come tutor per uno stage che non mi è servito a nulla, se non ad
illuminarmi su quanto sia ridicolo credersi emancipati quando in realtà ci si è
solo sradicati al punto di arrivare a sostenere: “Dimentica quello che hai
fatto fin ora perché qui non è come lì”.
Io le valige le ho fatte e me le trascino dietro ovunque vada ma dentro non
ci voglio conservare le cesoie che tagliano i legami ma la coscienza di non
essere spuntata dal nulla.
Perché, alla fine, le radici restano attaccate sotto i piedi ed è con quelli
che percorriamo il mondo.
Bellissimo il tuo blog, Chiara! Scrivi molto bene.
RispondiEliminaMi hai ricordato un detto inglese, che ti posso tagliare su misura: "You can take the girl out of Cerignola but you can't take Cerignola out of the girl."
Grazie Paulle, per il sostegno.
RispondiElimina"Perché, alla fine, le radici restano attaccate sotto i piedi ed è con quelli che percorriamo il mondo"....che brivido quando ho letto questa frase...
RispondiEliminaGrazie Carla...
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