"Don't worry about a
thing,
'Cause every little thing gonna be all right.
Singin': "Don't worry about a thing,
'Cause every little thing gonna be all right!"
'Cause every little thing gonna be all right.
Singin': "Don't worry about a thing,
'Cause every little thing gonna be all right!"
Tutto
andrà per il verso giusto. Me lo ripeto ogni giorno. E non è un mantra sempre
buono a creare l’ultima illusione. Perché noi stiamo passando alla storia come
la generazione degli illusi e stiamo finendo per crederci anche noi.
Tutte
le cose andranno a posto e l’unico posto da cui partire per metterle al loro
posto siamo proprio noi. Non c’è esperto che possa dirci come siamo fatti, né come
siamo cresciuti e nemmeno perché al mattino ci svegliamo stanchi. Ci svegliamo stanchi
di dover, per un altro giorno ancora, sbracciare per dire al mondo che siamo
qui a scaldare delle sedie che non vogliamo scaldare, prendere in faccia porte
che ormai prenderemmo volentieri a calci e metterci sotto esame ogni giorno per
venire a galla prima di qualcun altro.
Troppo
facile scrollarci di dosso questo cartello che ci identifica e fingere di non
averlo mai avuto, e anche se ne faremmo a meno con grande entusiasmo, il cartello
ce lo hanno appeso al collo e reca la scritta: ex studente, ex precario,
disoccupato, ricercatore senza fondi. Bella beffa farci identificare per
difetto, per quello che eravamo, che saremmo dovuti essere e per quello che non
abbiamo. Troppo facile anche commiserarsi, sbracciare inveendo contro la legge
sbagliata, che per forza di cose dobbiamo digerire. E lo abbiamo fatto, l’abbiamo
digerita, come tutte le leggi che per definizione regolano e in realtà
disordinano.
Lo standard
in completa evoluzione richiede requisiti sempre diversi e come criceti su una
ruota che gira gira ma non porta da nessuna parte ci affanniamo a correre, perché
ce lo hanno detto di correre, ma non ci hanno mica detto dove andare.
Io
voglio andare dove avrei sempre sognato di andare, cioè verso la coerenza. La
consapevolezza di se stessi non si misura sul termometro dell’analisi sociale e
dunque, non mi voglio adeguare. Non mi adeguo perché mentre lo faccio smetto di
pensare con la mia testa e comincio a diventare come mi chiedono di essere. Ci chiedono
di essere competitivi intanto la competizione si trasforma in un gioco al
massacro. Ci chiedono di aggiornarci, e mentre lo facciamo lo standard cresce,
la scrematura si fa più serrata e restiamo sempre fuori. E poi ci chiedono di
sacrificarci, come se fossimo estranei alla parola sacrificio e dovessimo
sforzarci di esserlo. Ma ci viene così naturale, perché certe parole cambiano
di senso quando abusate. E la rinuncia ormai è qualcosa di dovuto. Siamo tenuti
a rinunciare, per una ricompensa più grande dopo. Chi si sta preoccupando di
fare la scorta al posto nostro?
Io
voglio andare dove posso dire di avere ancora la possibilità di scegliere senza
rimanere indietro. Dove non devo sentirmi sempre in colpa se non soddisfo lo
standard. E lo standard lo fa il potere per adeguare e allineare, uniformare e
scartare le mele marce. Nessuno, però, qui è una mela marcia se mantiene ancora
un po’ di integrità.
Credo
di aver avuto sempre le idee chiare, come molti miei coetanei. E credo anche
che siano le idee a destabilizzare i “protocolli” di inserimento sociale. Quindi
cosa c’è di meglio che confonderci le idee? Io nel protocollo non ci voglio
entrare.
Il capitale
umano è l’unico capitale che può opporre resistenza. E se nessuno è disposto ad
investire su di noi, forse sarebbe ora che cominciassimo noi ad investire su
noi stessi e smetterla di farci attaccare delle etichette, come si fa con le
carni!
Dovremmo
smetterla di chiuderci in categorie che fanno solo comodo a chi ha bisogno di controllarci.
Tutto
andrà per il verso giusto, partendo con il cominciare ad essere coerenti con se
stessi, strapparci i cartelli dal collo e dichiarando che l’unica etichetta che
accettiamo è quella che porta inciso il nostro nome.
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