giovedì 28 febbraio 2013

L’UNICA ETICHETTA CHE VOGLIO È QUELLA DEL MIO NOME


"Don't worry about a thing,
'Cause every little thing gonna be all right.
Singin': "Don't worry about a thing,
'Cause every little thing gonna be all right!"

Tutto andrà per il verso giusto. Me lo ripeto ogni giorno. E non è un mantra sempre buono a creare l’ultima illusione. Perché noi stiamo passando alla storia come la generazione degli illusi e stiamo finendo per crederci anche noi.
Tutte le cose andranno a posto e l’unico posto da cui partire per metterle al loro posto siamo proprio noi. Non c’è esperto che possa dirci come siamo fatti, né come siamo cresciuti e nemmeno perché al mattino ci svegliamo stanchi. Ci svegliamo stanchi di dover, per un altro giorno ancora, sbracciare per dire al mondo che siamo qui a scaldare delle sedie che non vogliamo scaldare, prendere in faccia porte che ormai prenderemmo volentieri a calci e metterci sotto esame ogni giorno per venire a galla prima di qualcun altro.
Troppo facile scrollarci di dosso questo cartello che ci identifica e fingere di non averlo mai avuto, e anche se ne faremmo a meno con grande entusiasmo, il cartello ce lo hanno appeso al collo e reca la scritta: ex studente, ex precario, disoccupato, ricercatore senza fondi. Bella beffa farci identificare per difetto, per quello che eravamo, che saremmo dovuti essere e per quello che non abbiamo. Troppo facile anche commiserarsi, sbracciare inveendo contro la legge sbagliata, che per forza di cose dobbiamo digerire. E lo abbiamo fatto, l’abbiamo digerita, come tutte le leggi che per definizione regolano e in realtà disordinano.
Lo standard in completa evoluzione richiede requisiti sempre diversi e come criceti su una ruota che gira gira ma non porta da nessuna parte ci affanniamo a correre, perché ce lo hanno detto di correre, ma non ci hanno mica detto dove andare.
Io voglio andare dove avrei sempre sognato di andare, cioè verso la coerenza. La consapevolezza di se stessi non si misura sul termometro dell’analisi sociale e dunque, non mi voglio adeguare. Non mi adeguo perché mentre lo faccio smetto di pensare con la mia testa e comincio a diventare come mi chiedono di essere. Ci chiedono di essere competitivi intanto la competizione si trasforma in un gioco al massacro. Ci chiedono di aggiornarci, e mentre lo facciamo lo standard cresce, la scrematura si fa più serrata e restiamo sempre fuori. E poi ci chiedono di sacrificarci, come se fossimo estranei alla parola sacrificio e dovessimo sforzarci di esserlo. Ma ci viene così naturale, perché certe parole cambiano di senso quando abusate. E la rinuncia ormai è qualcosa di dovuto. Siamo tenuti a rinunciare, per una ricompensa più grande dopo. Chi si sta preoccupando di fare la scorta al posto nostro?
Io voglio andare dove posso dire di avere ancora la possibilità di scegliere senza rimanere indietro. Dove non devo sentirmi sempre in colpa se non soddisfo lo standard. E lo standard lo fa il potere per adeguare e allineare, uniformare e scartare le mele marce. Nessuno, però, qui è una mela marcia se mantiene ancora un po’ di integrità.
Credo di aver avuto sempre le idee chiare, come molti miei coetanei. E credo anche che siano le idee a destabilizzare i “protocolli” di inserimento sociale. Quindi cosa c’è di meglio che confonderci le idee? Io nel protocollo non ci voglio entrare.
Il capitale umano è l’unico capitale che può opporre resistenza. E se nessuno è disposto ad investire su di noi, forse sarebbe ora che cominciassimo noi ad investire su noi stessi e smetterla di farci attaccare delle etichette, come si fa con le carni!
Dovremmo smetterla di chiuderci in categorie che fanno solo comodo a chi ha bisogno di controllarci.
Tutto andrà per il verso giusto, partendo con il cominciare ad essere coerenti con se stessi, strapparci i cartelli dal collo e dichiarando che l’unica etichetta che accettiamo è quella che porta inciso il nostro nome.

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