Essere stata una studentessa
universitaria per così tanto tempo e rendermene conto con tale lucidità mi
atterrisce. Mentre lo ero mi faceva piacere avere un alibi perfetto per
rimandare ancora di poco il momento atroce dell’ennesima porta sbattuta in
faccia. Non che io stia qui a contarmi i capelli bianchi ma neanche la raccolta
punti a cui ci hanno costretti mi incute grande soddisfazione. E al posto di un
po’ di saggezza, ho tra le mani un elenco interminabile di esami con relativi
cfu. I cfu: come se la storia greca, per esempio, o la storia del teatro del
900 possa quantificarsi in punti da collezionare gelosamente! E allora mi
accorgo che è diventata davvero una corsa forsennata verso piani di studio
improponibili nel miraggio della forma mentis ideale. Ma ideale per chi, per
cosa??
Ho sempre avuto la presunzione, se di
presunzione si può parlare, di scegliermi con accuratezza la forma ideale per me. Ammesso, poi, che
sia una forma quella di cui abbiamo davvero bisogno. E nei sogni
pre-adolescenziali mi figuravo la mia futura vita accademica come una
passeggiata faticosa e fascinosa, come un bellissimo fermento di idee che mi
avrebbe avvolta. Invece sono incappata nel ministro confuso e inciampata nella
riforma avventata e mi ci sono dovuta adeguare. Ma se possono plasmare come
argilla la mia carriera accademica, per fortuna, un po’ di resistenza al
modellamento dei cervelli è ancora possibile. E io il mio cervello continuo a
proteggerlo forsennatamente, come in una ridicola lotta per la sopravvivenza.
Eh si, perché poi, dopo lodi e riconoscimenti, è lui che, quando sono sola nel
silenzio, si ribella e si dimena se si è sentito violentato. È come se mi
intimasse di preservare un minimo di autonomia da quel famoso, agognato e
inconsistente concetto di forma entro cui, a calci, mi vogliono murare.
Io le forme non le ho mai amate e
questo mi è valso sin da subito il titolo di ragazzina ribelle. Un bel luogo
comune da cui proprio non puoi scappare. Ma ad un certo punto smetti di essere
ragazzina e la forma ti piace ancora meno e forse diventa abbastanza chiaro che
non si trattava di una presa di posizione ma di una vera e propria allergia.
Filtrati fronzoli e atteggiamenti, ce
ne torniamo a casa sempre e comunque con noi stessi ed è sempre con noi stessi
che dobbiamo fare i conti. Allora, forse, la cosa più saggia da fare è un bel
patto, sincero e spassionato, con il proprio cervello. Io me lo porto a spasso
fra gimcane ben tracciate di progetti finto qualificanti e lui, in cambio, si
impegna a rimanere sempre fedele alla sua funzione biologica: stimolare
l’involucro ad essere vigile alle costrizioni. Folle fare un patto con la
materia grigia che pulsa dentro i nostri cranietti, lo so, ma in qualche modo è
proprio lì che si annidano i tasselli della diversità, è lì che si va a
rifugiare il vero senso di noi stessi. E se da lì sgattaiola fino al cuore, è
sempre da lì che parte.
E per tornare alle forme, le detesto
per il loro estremo tentativo di incanalare qualcosa che magari nasce per
essere libero. E la libertà si stiracchia proprio sull’idea che sembrava più
inadeguata. Ed è grazie a quell’idea che hanno timbrato con la sigla inadeguata che innalziamo il manifesto
di noi stessi. Perché se non portiamo avanti la diversità che ci
contraddistingue chi ci penserà a presentarci al mondo? La raccolta punti
accademica che abbiamo in doppione con un altro milione di persone?!!
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