Reyhaneh Jabbari |
Nel 2007 Reyhaneh Jabbari aveva
ucciso l'uomo che tentò di stuprarla, un ex dipendente della intelligence
iraniana. Ieri è stata impiccata con una sentenza che avvalla l'accusa di
omicidio premeditato.
Il processo sommario e imperfetto
è solo uno degli aspetti di una vicenda che spinge a chiedersi se il concetto
di premeditazione sia accettabile e applicabile in circostanze specifiche in
cui la premeditazione passa ad essere requisito fondamentale per una giustizia
fatta in casa laddove non è un governo civile a farsene garante.
L’attuazione di norme che
definiscono l’ammissibilità di attenuanti come la legittima difesa in un paese
dove non sussiste in primis una legge che tutela l’eguaglianza di sesso di
fronte alla legge automaticamente inficia il valore di esistenza di quella
stessa norma.
A Reyhaneh è stata negata la
grazia perché per il giudice non si è trattato di legittima difesa. La ragazza
aveva comprato un coltello da cucina due giorni prima e ha accoltellato l’uomo
alle spalle. Il piano teorico fa palesemente a cazzotti con la
razionalizzazione e l’interpretazione della circostanza.
Inoltre la ragazza avrebbe dovuto
negare di aver subito un tentato stupro per potersi salvare perché la famiglia
della vittima si era dimostrata disponibile a concedere il perdono se solo il
motivo dell’omicidio fosse stato ritratto. Ma la ragazza non ha mai modificato
la sua versione gridando la sua verità fino alla fine, quando ieri lo stesso
figlio della vittima ha tolto lo sgabello da sotto i suoi piedi.
Una sentenza pilotata che
sventola la bandiera della pena di morte come vessillo di giustizia incurante
della mobilitazione internazionale a favore della grazia per la ragazza è l’ennesimo
segno di un governo che con il suo strapotere riafferma il diritto sulla vita e
la morte, sulla manipolazione dei fatti nonché sulla sorte di un popolo che,
fosse anche per questa sola sentenza, non può dirsi libero.
Che ci sia o no una connivenza
tra magistratura e governo, l’Iran ieri non ha saputo o potuto salvare una
ragazza di 26 anni strumentalizzando una legge, quella della pena di morte, che
poco ha a che fare con la giustizia e molto con la pubblica dimostrazione di un
potere che si autoproclama invincibile.
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