domenica 26 ottobre 2014

Reyhaneh impiccata a 26 anni dalla "giustizia" iraniana. Il figlio della vittima le ha tolto lo sgabello da sotto i piedi.


Reyhaneh Jabbari


Nel 2007 Reyhaneh Jabbari aveva ucciso l'uomo che tentò di stuprarla, un ex dipendente della intelligence iraniana. Ieri è stata impiccata con una sentenza che avvalla l'accusa di omicidio premeditato.
Il processo sommario e imperfetto è solo uno degli aspetti di una vicenda che spinge a chiedersi se il concetto di premeditazione sia accettabile e applicabile in circostanze specifiche in cui la premeditazione passa ad essere requisito fondamentale per una giustizia fatta in casa laddove non è un governo civile a farsene garante.
L’attuazione di norme che definiscono l’ammissibilità di attenuanti come la legittima difesa in un paese dove non sussiste in primis una legge che tutela l’eguaglianza di sesso di fronte alla legge automaticamente inficia il valore di esistenza di quella stessa norma.

A Reyhaneh è stata negata la grazia perché per il giudice non si è trattato di legittima difesa. La ragazza aveva comprato un coltello da cucina due giorni prima e ha accoltellato l’uomo alle spalle. Il piano teorico fa palesemente a cazzotti con la razionalizzazione e l’interpretazione della circostanza.
Inoltre la ragazza avrebbe dovuto negare di aver subito un tentato stupro per potersi salvare perché la famiglia della vittima si era dimostrata disponibile a concedere il perdono se solo il motivo dell’omicidio fosse stato ritratto. Ma la ragazza non ha mai modificato la sua versione gridando la sua verità fino alla fine, quando ieri lo stesso figlio della vittima ha tolto lo sgabello da sotto i suoi piedi. 

Una sentenza pilotata che sventola la bandiera della pena di morte come vessillo di giustizia incurante della mobilitazione internazionale a favore della grazia per la ragazza è l’ennesimo segno di un governo che con il suo strapotere riafferma il diritto sulla vita e la morte, sulla manipolazione dei fatti nonché sulla sorte di un popolo che, fosse anche per questa sola sentenza, non può dirsi libero. 

Che ci sia o no una connivenza tra magistratura e governo, l’Iran ieri non ha saputo o potuto salvare una ragazza di 26 anni strumentalizzando una legge, quella della pena di morte, che poco ha a che fare con la giustizia e molto con la pubblica dimostrazione di un potere che si autoproclama invincibile.

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