La campana di vetro è l’unico
romanzo di Sylvia Plath la cui fama è legata indissolubilmente soprattutto alla
sua opera poetica.
Fu pubblicato nel 1963, poco meno
di un mese prima della morte della Plath, dall’editore Faber and Faber sotto lo
pseudonimo di Victoria Lucas.
La colonna portante del romanzo è
la dimensione autobiografica che, per chi conosce anche per sommi capi la
vicenda umana di Sylvia Plath, risulta lampante. Sebbene la Plath sostituisca i
nomi dei personaggi con nomi di fantasia, i parallelismi tra il percorso umano
della scrittrice e quello della protagonista de La Campana di vetro sono
innumerevoli.
Questo romanzo si
contraddistingue immediatamente per un sentimento di alienazione e inadeguatezza
che nella sua onnipresenza costituisce quella campana di vetro da cui la
protagonista si sente schiacciata.
Esther, la protagonista, emerge
in tutta la sua solitaria individualità in una prosa che sottolinea la distanza
incolmabile tra l’io narrante e il mondo circostante.
Il pregio che rappresenta allo
stesso tempo la difficoltà di un romanzo come La campana di vetro sta nell’evoluzione
della prosa che man mano si fa più delirante, spezzettata eppur allo stesso
tempo caldamente introspettiva. Idealmente tale evoluzione della scrittura
riflette l’evoluzione del personaggio e della scrittrice stessa in quella che
può definirsi più che altro una sorta di involuzione alla ricerca di una via
per la rinascita.
La campana di vetro sembra essere
esattamente ciò che la Plath dichiarò a quell’epoca: un lavoro eseguito per
liberarsi del passato. La scrittura riecheggia una dimensione catartica
necessaria alla protagonista come anche, evidentemente, alla sua creatrice.
Il romanzo termina su una
sospensione che lascerà delusi i lettori più avvezzi a chiuse definitive. Non c’è
nulla di definitivo in questo romanzo che per tutto il suo tempo porta su è giù
il lettore tra le anse di una personalità sulla strada della deviazione
psichica.
Non a caso più di qualcuno, e non
mi tiro fuori, ha trovato questa una lettura sofferta e più volte ha dovuto
interrompersi, anche se per poco, a causa della velocità e veracità dolorante
con cui la protagonista vive il suo malessere mentale trascinando con sé il
lettore.
Sylvia Plath |
La protagonista del romanzo
dichiara di voler scrivere per poter eccellere in uno dei mezzi di espressione
della vita. L’assenza di ispirazione e il disagio psichico la conducono a
sostenere di non esserne più in grado e questo la porterà a tentare il suicidio
più di una volta, tentativi mirati più al confronto con la morte che alla morte
stessa. Da qui la sua esperienza di “purificazione” in un ospedale psichiatrico
nella quale la lasciamo nell’ultima pagina, ferma sull’uscio di una sala in cui
una commissione di medici l’attende per un colloquio che decreterà il suo
ritorno o meno alla vita normale.
È qui che termina il romanzo
della Plath ed è qui l’orma autobiografica che rimette insieme i pezzi.
La scrittura del romanzo nella
realtà come figurato continuum del romanzo stesso. È attraverso La campana di
vetro che Esther guarisce momentaneamente dal suo immobilismo e si libera della campana di
vetro che la opprime e con lei l’autrice.
Immagino un finale che non è mai
stato scritto e che vede Esther tornare a casa e riuscire a scrivere finalmente
il suo primo romanzo, intitolandolo La campana di vetro.
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