sabato 11 ottobre 2014

Sylvia Plath. La campana di vetro. RECENSIONE





La campana di vetro è l’unico romanzo di Sylvia Plath la cui fama è legata indissolubilmente soprattutto alla sua opera poetica.

Fu pubblicato nel 1963, poco meno di un mese prima della morte della Plath, dall’editore Faber and Faber sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas. 

La colonna portante del romanzo è la dimensione autobiografica che, per chi conosce anche per sommi capi la vicenda umana di Sylvia Plath, risulta lampante. Sebbene la Plath sostituisca i nomi dei personaggi con nomi di fantasia, i parallelismi tra il percorso umano della scrittrice e quello della protagonista de La Campana di vetro sono innumerevoli.
Questo romanzo si contraddistingue immediatamente per un sentimento di alienazione e inadeguatezza che nella sua onnipresenza costituisce quella campana di vetro da cui la protagonista si sente schiacciata.
Esther, la protagonista, emerge in tutta la sua solitaria individualità in una prosa che sottolinea la distanza incolmabile tra l’io narrante e il mondo circostante.
Il pregio che rappresenta allo stesso tempo la difficoltà di un romanzo come La campana di vetro sta nell’evoluzione della prosa che man mano si fa più delirante, spezzettata eppur allo stesso tempo caldamente introspettiva. Idealmente tale evoluzione della scrittura riflette l’evoluzione del personaggio e della scrittrice stessa in quella che può definirsi più che altro una sorta di involuzione alla ricerca di una via per la rinascita.
La campana di vetro sembra essere esattamente ciò che la Plath dichiarò a quell’epoca: un lavoro eseguito per liberarsi del passato. La scrittura riecheggia una dimensione catartica necessaria alla protagonista come anche, evidentemente, alla sua creatrice.

Il romanzo termina su una sospensione che lascerà delusi i lettori più avvezzi a chiuse definitive. Non c’è nulla di definitivo in questo romanzo che per tutto il suo tempo porta su è giù il lettore tra le anse di una personalità sulla strada della deviazione psichica.
Non a caso più di qualcuno, e non mi tiro fuori, ha trovato questa una lettura sofferta e più volte ha dovuto interrompersi, anche se per poco, a causa della velocità e veracità dolorante con cui la protagonista vive il suo malessere mentale trascinando con sé il lettore.

Sylvia Plath

La protagonista del romanzo dichiara di voler scrivere per poter eccellere in uno dei mezzi di espressione della vita. L’assenza di ispirazione e il disagio psichico la conducono a sostenere di non esserne più in grado e questo la porterà a tentare il suicidio più di una volta, tentativi mirati più al confronto con la morte che alla morte stessa. Da qui la sua esperienza di “purificazione” in un ospedale psichiatrico nella quale la lasciamo nell’ultima pagina, ferma sull’uscio di una sala in cui una commissione di medici l’attende per un colloquio che decreterà il suo ritorno o meno alla vita normale.
È qui che termina il romanzo della Plath ed è qui l’orma autobiografica che rimette insieme i pezzi.
La scrittura del romanzo nella realtà come figurato continuum del romanzo stesso. È attraverso La campana di vetro che Esther guarisce momentaneamente dal suo immobilismo e si libera della campana di vetro che la opprime e con lei l’autrice. 
Immagino un finale che non è mai stato scritto e che vede Esther tornare a casa e riuscire a scrivere finalmente il suo primo romanzo, intitolandolo La campana di vetro.
 



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