giovedì 5 dicembre 2013

Sono italiana e non posso stare calma

Da 7 mesi via dall’Italia, da 7 mesi in Australia, una nazione completamente agli antipodi e soprattutto da 7 mesi a contatto con una realtà che mi convince sempre di più che è possibile registrare i minimi storici di ansia e preoccupazione. Eppure questo non mi è bastato a tirare una bella riga sulla parola Italia. Amo la mia Italia come la amavo mentre la guardavo rimpicciolirsi dal finestrino dell’aereo e la amo anche di un amore più forte quando ogni giorno al tg 1, che guardo in differita di poche ore, mi commuovo senza meraviglia per tutto quello che non vorrei mai vedere o sentire. La disperazione non scema con i kilometri e così l’amore e l’appartenenza. E come l’amore e la disperazione, la rabbia fa fatica a dirsi vinta anche quando ripagata dalla serenità che ho acquistato dall’altro lato del mondo in mezzo all’oceano, qui dove tutto sembra essere stato creato per non farsi vincere da nessuna complicazione.
Ma io sono italiana e sarò italiana fino a quando avrò fiato per dirlo. Non c’è nessun paragone che regga tra queste due terre così diverse e non c’è mano che possa spazzare via una terra di origine come fosse polvere. Fino ad ora sono stata italiana con rabbia e con rabbia sono venuta quaggiù per darmi un po’ di pace. Non mi sono emancipata dall’Italia che mi ha cresciuta, né dalla terra che mi ha fatto gridare, piangere e sbraitare quando mi faceva sentire abbandonata a nessuna risposta possibile. Mi sono emancipata dall’idea di rassegnazione.
La felicità di svegliarsi sereni e senza alcuna preoccupazione fa a cazzotti con la bellezza di un’Italia che, vista così da lontano, sembra sempre più impantanata nella rassegnazione degli italiani e in quello scarica-barile che serve solo a lavarsi le mani per paura di sbagliare ancora. Quello che vedo da quaggiù è un’Italia che non sa nemmeno più sbattersi la testa contro un muro, l’Italia di chi il lavoro non lo cerca nemmeno più, di chi ormai ha accettato di sentirsi degradato. 
Non mi sentirò mai non-italiana e anche se ho scelto di restare lontano qui sarò sempre l’italiana che pronuncia troppo le “erre” e che pensa che sia un crimine mettere l’ananas sulla pizza, l’italiana che quando parla muove l’aria con le mani e che fa colazione con il caffè perché le uova e il bacon a colazione mi si mettono sullo stomaco. Sono italiana e sarò anche un luogo comune vivente ma l’Italia non è un nome su un passaporto ma un tatuaggio sul cuore.
Per tutte queste ragioni la parola Italia per me fa anche rima con la parola rabbia. Sono arrabbiata, imbestialita con tutte quelle persone che in Italia si sono messi al timone di grandi e piccole istituzioni e guidano il paese come fosse una zattera mezza distrutta. Sono imbestialita con chi si è trasformato in un automa e non fa mai la differenza perché lo stipendio forse gli arriva ogni inizio mese e quello che c’è intorno non conta quanto il cartellino timbrato e le cifre sul suo misero conto in banca.
Sono furiosa con l’università in cui mi sono laureata perché probabilmente sta in piedi a stento ma non fa niente per mettersi dritta e provare a competere con le altre università italiane. Cavoli! Siamo l’Italia di alcune tra le più antiche università europee, l’Italia di Dante! Sono amareggiata per tutte quelle volte in cui ho pensato ai miei studi universitari come al mezzo per costruire la mia cultura e per crearmi un pass per entrare nel mondo vero e invece mi accorgo che siamo stati numeri in registri di carta che presto finiranno bruciati insieme alle nostre tesi di laurea. Sono arrabbiata, sono nera, furibonda con quel segretario di facoltà che ha una faccia di bronzo e che ti parla come se tutto fosse ovvio e normale perché “va così e prendi quello che c’è, accontentati e vedi anche di non pretendere”. Sono offesa dal fatto di non poter dimostrare all’Europa e al mondo intero che ho conseguito una laurea che per legge è valida. E sono nervosa perché non sono in Italia per poter correre da quello stesso segretario e gridargli che facesse meglio a licenziarsi se crede che una traduzione dall’italiano all’inglese sia sufficiente a definire l’equivalenza tra un titolo di studio italiano ed uno estero. Proprio lui che è in se stesso uno strumento della cavillosa burocrazia italiana pretende che la burocrazia internazionale sorvoli accettando un foglietto volante tradotto letteralmente dall’italiano all’inglese. E cosa rimane? Rimane l’invincibile gatto che si morde la coda. Rimane la mia rabbia e rimangono tutte le future generazioni addestrate ad accontentarsi e a non contestare l’ovvio al segretario di turno che si mostra anche scocciato di tanta insistenza. 
Questa è l’Italia che mi fa piangere guardando il tg, l’Italia che mi fa urlare quando si avviluppa nei suoi stessi errori e nella sua ignoranza e l’Italia che sta lavando via la sua bellezza per rassegnazione.
Chi resta, resti per amore e determinazione. 
Io ho scelto di andarmene non per rassegnazione ma per provare ad essere felice, prendendomi anche il prezzo da pagare.

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