Da 7 mesi via
dall’Italia, da 7 mesi in Australia, una nazione completamente agli
antipodi e soprattutto da 7 mesi a contatto con una realtà che mi
convince sempre di più che è possibile registrare i minimi storici
di ansia e preoccupazione. Eppure questo non mi è bastato a tirare
una bella riga sulla parola Italia. Amo la mia Italia come la amavo
mentre la guardavo rimpicciolirsi dal finestrino dell’aereo e la
amo anche di un amore più forte quando ogni giorno al tg 1, che
guardo in differita di poche ore, mi commuovo senza meraviglia per
tutto quello che non vorrei mai vedere o sentire. La disperazione non
scema con i kilometri e così l’amore e l’appartenenza. E come
l’amore e la disperazione, la rabbia fa fatica a dirsi vinta anche
quando ripagata dalla serenità che ho acquistato dall’altro lato
del mondo in mezzo all’oceano, qui dove tutto sembra essere stato
creato per non farsi vincere da nessuna complicazione.
Ma io sono italiana e
sarò italiana fino a quando avrò fiato per dirlo. Non c’è nessun
paragone che regga tra queste due terre così diverse e non c’è
mano che possa spazzare via una terra di origine come fosse polvere.
Fino ad ora sono stata italiana con rabbia e con rabbia sono venuta
quaggiù per darmi un po’ di pace. Non mi sono emancipata
dall’Italia che mi ha cresciuta, né dalla terra che mi ha fatto
gridare, piangere e sbraitare quando mi faceva sentire abbandonata a
nessuna risposta possibile. Mi sono emancipata dall’idea di
rassegnazione.
La felicità di
svegliarsi sereni e senza alcuna preoccupazione fa a cazzotti con la
bellezza di un’Italia che, vista così da lontano, sembra sempre
più impantanata nella rassegnazione degli italiani e in quello
scarica-barile che serve solo a lavarsi le mani per paura di
sbagliare ancora. Quello che vedo da quaggiù è un’Italia che non
sa nemmeno più sbattersi la testa contro un muro, l’Italia di chi
il lavoro non lo cerca nemmeno più, di chi ormai ha accettato di
sentirsi degradato.
Non mi sentirò mai
non-italiana e anche se ho scelto di restare lontano qui sarò sempre
l’italiana che pronuncia troppo le “erre” e che pensa che sia
un crimine mettere l’ananas sulla pizza, l’italiana che quando
parla muove l’aria con le mani e che fa colazione con il caffè
perché le uova e il bacon a colazione mi si mettono sullo stomaco.
Sono italiana e sarò anche un luogo comune vivente ma l’Italia non
è un nome su un passaporto ma un tatuaggio sul cuore.
Per tutte queste ragioni
la parola Italia per me fa anche rima con la parola rabbia. Sono
arrabbiata, imbestialita con tutte quelle persone che in Italia si
sono messi al timone di grandi e piccole istituzioni e guidano il
paese come fosse una zattera mezza distrutta. Sono imbestialita con
chi si è trasformato in un automa e non fa mai la differenza perché
lo stipendio forse gli arriva ogni inizio mese e quello che c’è
intorno non conta quanto il cartellino timbrato e le cifre sul suo
misero conto in banca.
Sono furiosa con
l’università in cui mi sono laureata perché probabilmente sta in
piedi a stento ma non fa niente per mettersi dritta e provare a
competere con le altre università italiane. Cavoli! Siamo l’Italia
di alcune tra le più antiche università europee, l’Italia di
Dante! Sono amareggiata per tutte quelle volte in cui ho pensato ai
miei studi universitari come al mezzo per costruire la mia cultura e
per crearmi un pass per entrare nel mondo vero e invece mi accorgo
che siamo stati numeri in registri di carta che presto finiranno
bruciati insieme alle nostre tesi di laurea. Sono arrabbiata, sono
nera, furibonda con quel segretario di facoltà che ha una faccia di
bronzo e che ti parla come se tutto fosse ovvio e normale perché “va
così e prendi quello che c’è, accontentati e vedi anche di non
pretendere”. Sono offesa dal fatto di non poter dimostrare
all’Europa e al mondo intero che ho conseguito una laurea che per
legge è valida. E sono nervosa perché non sono in Italia per poter
correre da quello stesso segretario e gridargli che facesse meglio a
licenziarsi se crede che una traduzione dall’italiano all’inglese
sia sufficiente a definire l’equivalenza tra un titolo di studio
italiano ed uno estero. Proprio lui che è in se stesso uno strumento
della cavillosa burocrazia italiana pretende che la burocrazia
internazionale sorvoli accettando un foglietto volante tradotto
letteralmente dall’italiano all’inglese. E cosa rimane? Rimane
l’invincibile gatto che si morde la coda. Rimane la mia rabbia e
rimangono tutte le future generazioni addestrate ad accontentarsi e a
non contestare l’ovvio al segretario di turno che si mostra anche
scocciato di tanta insistenza.
Questa è l’Italia che
mi fa piangere guardando il tg, l’Italia che mi fa urlare quando si
avviluppa nei suoi stessi errori e nella sua ignoranza e l’Italia
che sta lavando via la sua bellezza per rassegnazione.
Chi resta, resti per
amore e determinazione.
Io ho scelto di andarmene
non per rassegnazione ma per provare ad essere felice, prendendomi
anche il prezzo da pagare.
Nessun commento:
Posta un commento