domenica 17 marzo 2013

LESS TALK, MORE ROCK.



“Sono stato imitato così bene che ho sentito
persone che copiavano i miei errori”.
Jimi Hendrix

Oggi, anche ispirata dalle considerazioni di un amico, voglio scrivere di un argomento diverso: di musica.
È un topos legato all’adolescenza, ma che si trascina anche ben oltre, quello del chitarrista capellone rockettaro di paesino con ambizioni da rock man. La passione per la musica, soprattutto per un certo tipo di musica, è il motore aggregativo per eccellenza. E la scrematura è veloce, tra quelli che hanno una vera e propria adulazione per la musica e un talento specifico come musicisti e quelli che, invece, si improvvisano grandi artisti per spirito di emulazione.
L’emulazione è proprio lo spartiacque fra la buona musica e la musica che si compiace di se stessa e di quello che fare il musicista comporta.
La cantina, il ventre per eccellenza in campo musicale, partorisce da decenni stuoli di ottimi musicisti, che non verranno mai scoperti, e schiere di band pseudo-rock che calcheranno i palchi di piccole e, qualche volta, grossi festival.
Ma questi non sono gli anni ’70 e la cultura musicale si alimenta di ambizioni a metà strada tra il disco autoprodotto e la partecipazione al talent show in prima serata sulle reti nazionali.
Il risultato è che anche le ambizioni tendono a sfumare nel desiderio di farsi conoscere a discapito dell’autonomia e nell’illusione di una coerenza stilistica fasulla. Nel mondo della musica la coerenza assume significati ambigui. Alla troppa coerenza, capace di trasformarsi ben presto in imitazione alla ricerca di un sogno da rock ‘n roll, servirebbe il contrappeso dell’originalità che può scaturire solo dalla voglia di rompere gli schemi.
I grandi maestri della musica hanno conquistato tale titolo solo grazie alla carica distruttiva con cui hanno voluto dirottare il vecchio verso nuovi significati musicali, ritmiche e stili.
Accade, dunque, che i festival, le serate in piazza, i palcoscenici che si prefiggono lo scopo di lanciare band esordienti brulicano di band fotocopie che, individuato il faro maestro, non si scrollano di dosso i tanto abusati abiti alla Nirvana, Metallica e co.
Il mercato musicale odierno gode a promuoversi come scopritore di volti nuovi, ancora meglio voci nuove, ma nei fatti basa le sue scelte su analisi commerciali che utilizzano le voci come metro di giudizio marginale. E così la musica si trasforma in immagine.
E il rock, mito indistruttibile di intere generazioni, si svilisce al suono monostilistico di chitarre accordate per emulazione e si appiattisce su testi che potremmo intonare al primo ascolto.
Dalle cantine ai palchi, il Kurt Cobain di turno con ambizioni da front man sciorina il repertorio dinanzi a schiere di ragazzine invasate, si compiace della raggiunta somiglianza con il suo mito di sempre dopo aver studiato con attenzione la sua immagine allo specchio e aver dimenticato che la musica è poesia, comunicazione, cultura.

Nell’era dell’integrazione sociale a tutti i costi, dove l’omologazione si fa garante di un buon inserimento nelle file di coloro che hanno un peso, dove se rispetti il luogo comune hai la possibilità di concorrere ad un buon posto nella gerarchia di chi conta, anche la cultura musicale è inghiottita nel gioco del “vado sul sicuro”.
La musica è cultura, dirompente, coraggiosa, è sacrificio, quella stessa cultura che nega la cultura e che lo diventa per paradosso.
Non c’è sacrificio nell’emulazione.
Nietzsche scriveva “Il cattivo guadagna di considerazione con l’imitazione, il buono ci rimette – specialmente nell’arte”.

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